Il gioco Pipistrelli, che presentiamo sotto, ci offre la possibilità di trattare un secondo importante insegnamento, tratto dall’opera di Gregory Bateson, che va sotto il celebre detto secondo il quale la mappa non è il territorio.
Tutti i terrestri dovrebbero cioè oggi sapere che il nome che utilizziamo per indicare un oggetto non è l’oggetto stesso, ma la rappresentazione che ce ne facciamo. L’operazione, dunque, consiste nell’ applicare una sorta di etichetta al dato che proviene dalla realtà, a noi “conosciuta” attraverso i nostri sensi.
Tale operazione è il frutto, a sua volta, dell’ interazione tra i nostri due emisferi cerebrali. Quello affettivo, di solito il destro, non sarebbe capace di distinguere tra oggetto e nome assegnato. Mentre sarebbe compito dell’altro emisfero, operare la corretta distinzione. Poiché, appunto, i due emisferi operano in modo diverso, ecco che possono verificarsi non pochi problemi.
L’esempio che egli fa per illustrarli è quello della bandiera di uno Stato. Se prevalesse l’emisfero razionale, non avremmo dubbi nel limitarci a considerarla un mero simbolo del Paese che rappresenta. Ma ogni volta che prevale l’emisfero affettivo, viene identificata col Paese in questione, tanto da essere bruciata in piazza durante le manifestazioni di protesta dei gruppi nazionalistici. Si tenga conto che questo atto a sua volta entrerà in risonanza col prevalente emisfero affettivo di chi se ne sentirà offeso, producendo un sentimento di sdegno e di rivalsa.
Forse è possibile ora collegare così l’insegnamento di Gregory Bateson, illustrato nell’articolo precedente, con quello di oggi. Lo facciamo attraverso il gioco che appunto proponiamo oggi. Il pipistrello, infatti, ci consegna un’immagine più dinamica di quella che potremmo aver ricavato dalla lettura dell’articolo della scorsa settimana. Il pipistrello non “aspetta” di ricevere i dati della realtà per muoversi. Ma lancia dei messaggi e, a seconda delle risposte che riceve si muove nello spazio. Per fare questo non ha bisogno di tutti i sensi che abbiamo noi, ma ha un udito più potente del nostro. Potremmo dire che solo per questo conosce la realtà meno di noi? Al contrario il tipo di realtà che gli serve per vivere, la conosce meglio di noi. Man mano che riceve i segnali mette un’etichetta su ciò che gli interessa e si dirige sulla preda.
Anche noi facciamo lo stesso, diamo in nomi alle cose e a volte, secondo Gregory Bateson, quasi sempre, confondendo i due livelli: il nome che diamo alla cosa con la cosa stessa. Da qui l’avvertenza che la rappresentazione o il nome della cosa non è LA cosa. Così come la mappa che disegniamo per rappresentare un territorio non coincide con la sua realtà fisica.
Per cogliere l’utilità pratica di questo insegnamento partirei dalla battuta provocatoria che il pipistrello “vede” meglio di noi, secondo la memorabile affermazione di Andrea Camilleri in una delle sue ultime fatiche letterarie con Conversazione su Tiresia: da quando io non vedo più, vedo meglio.
Un’inconveniente in cui non incorre il pipistrello è quello di vedersi allo specchio. Attrezzo molto usato invece in generale in campo animale, sia per apprendere se l’animale che si riflette ha una coscienza di sé, che ai fini riproduttivi. Dare l’idea ai pochi esemplari rimasti di essere in numero maggiore, infatti, si rafforzerebbe il loro senso di sicurezza e di controllo del territorio e dunque si faciliterebbero le condizioni per l’accoppiamento e conseguente aumento della popolazione.
Non potendosi guardare allo specchio incorre, in particolare, nell’inconveniente, che invece capita a noi terrestri di scambiare come nostra vera immagine quella riflessa allo specchio.
Sappiamo, infatti, che di noi esistono due tipi di immagini: quella fotografica, che spesso non ci piace perché cozza con quella che abbiamo incamerato guardandoci allo specchio. E quella anch’essa riflessa negli altri.
Oggigiorno con l’uso dei social network abbiamo maggiore esposizione all’immagine fotografica col risultato positivo che accettiamo di più come siamo fatti.
Ma molto più importante è quella riflessa negli altri. Nel senso che siamo l’immagine di noi che ci rimandano gli altri. Questo è quell’elemento che in contrasto, in senso fotografico e non logico, con l’idea che ci siamo fatti di noi stessi, dà vita a quell’etichetta su cui c’è scritto chi siamo. A questo proposito nel nostro patrimonio c’è un altro interessante gioco utile a trattare questo importante aspetto, dal titolo Fasce.
Dunque, non c’è molta differenza tra noi e il pipistrello del nostro gioco. Le informazioni e pure quelle che riguardano la nostra identità si basano su un gioco continuo di rimandi tra l’idea che abbiamo di noi (come mi vedo) e le conferme o le disconferme che gli altri ci rimandano (come mi vedono). E su questo piano l’informazione è di tipo binario. Non ce ne facciamo nulla, cioè, di messaggi che ci rimandano informazioni approssimative o sfuocate, del tipo si, ma.
Nel campo della comunicazione umana, questa, infatti, può generare tre tipi di informazioni: il rifiuto, che corrisponde al terribile massaggio “tu non esisti”, la conferma (concordo con te) o ancora, la disconferma (non sono d’accordo con te). Non c’è contraddizione con ciò che abbiamo detto sopra, se si pensa che il rifiuto corrisponde all’azione di non “aprire” neppure il canale comunicativo.
Pier Gavino Sechi.