La corsa della solitudine (parte prima)

Il titolo del brano di oggi si ispira al nome del gioco che proponiamo (vedi al termine). Essendo una versione più dinamica del gioco Pipistrelli, oggetto del brano della settimana scorsa, ci pare utile parlarne per riflettere su un altro prezioso concetto che dimostra l’attualità del pensiero di Gregory Bateson a beneficio di ogni terrestre. Tutto ciò in un’epoca in cui prevale l’ansia di cercare la causa di ogni avvenimento in uno, a volte uno soltanto, antecedente. Ansia che in altri tempi veniva stemperata dal credere negli dei e nella imperscrutabilità delle loro scelte. Per Gregory Bateson, tuttavia, sembra che tale ossessione non ci liberi del tutto dall’influenza di una certa forma, sia pure debole, di animismo. Che egli descrive con l’efficace espressione di principio dormitivo.

Cercheremo ora, prima di tutto, di spiegare in che cosa consiste questo concetto e quindi, per dimostrarne l’utilità, di applicarlo al fenomeno dell’innovazione tecnologica valorizzando parallelamente il principio di precauzione.
Il principio dormitivo, anzitutto, consisterebbe nell’attribuire ad un oggetto una caratteristica che, invece, si manifesta quando entra in relazione con determinate variabili esterne. Nel testo Mente e natura si prende in considerazione l’oppio, ma analogo discorso può valere per il caffè o per la lettura. Il fatto che possano provocare effetti eccitanti o, con tutto il rispetto, digestivi, non è,infatti, una loro proprietà intrinseca. Bensì l’effetto che può prodursi su una persona, e magari non su altre, a seconda del rapporto che essa ha con loro. Sarebbe, in altri termini, dall’ interazione tra il caffè e la lettura e chi l’ assume e la pratica, che discendono gli effetti. I quali, per fallace proiezione, vengono attribuiti ad essi e non alla relazione col consumatore.

Ma in che cosa si sostanzia l’attualità del pensiero di Bateson? In primo luogo constatando l’abitudine che abbiamo solitamente ad applicare il principio dormitivo alle persone.
Ne discendono, così, tutta serie di conseguenze che possono dare origine ai cosiddetti black out comunicativi.
Facciamo qualche esempio. Dato che sta riprendendo l’attività scolastica, sembra opportuno prendere in considerazione come solitamente l’insegnante  può rappresentare il proprio allievo. Gli aggettivi più comuni sono, ad esempio, o vivace o svogliato. Non credo che in ciò vi sia un desiderio di sintesi. Quanto, più probabilmente, un errore concettuale che dal giudizio esclude le cause della vivacità o della svogliatezza con ogni probabilità da ricercare eventualmente pure nelle attività proposte o in tutta una serie di altri fattori. Non necessariamente insiti o coincidenti col carattere dell’alunno,  sino a ricomprendere lo stesso umore, se non persino lo stile, del docente nel condurre la lezione e la classe.

Sarebbe una buona mediazione tra l’esigenza di sintesi e quella di evitare le sabbie mobili del principio dormitivo, l’uso, da parte sua, di espressioni del tipo con me l’alunno è svogliato oppure è vivace. Formule certamente più maneggevoli rispetto a quelle più corrette, ma certo troppo lunghe e forse persino leziose, del tipo:  durante le mie lezioni l’alunno si mostra interessato oppure disinteressato.

Tali precisazioni solo in apparenza sono un omaggio al politicamente corretto. In quanto semmai invitano a parlare solo di ciò che vediamo e con la consapevolezza che in ciò giochiamo un ruolo quantomeno dì concausalità.

E a questo proposito, veniamo a quello che si può ritenere un altro decisivo insegnamento proveniente stavolta dal gruppo guidato dallo stesso Gregory Bateson, ossia la cosiddetta circolarità della comunicazione. Mentre, cioè, siamo abituati a considerare la comunicazione umana come uno statico alternarsi di fasi di trasmissione di messaggi da un emittente a un ricevente, con fasi di risposta in cui si invertono i ruoli, a ben vedere ciascuna di esse sarebbe nient’altro che un frammento, un fotogramma, di un processo dinamico più complesso. In cui a ben vedere il cosiddetto emittente manda dei messaggi al cosiddetto ricevente, perché a suo tempo aveva ricevuto dei messaggi da lui e ai quali sta rispondendo. In definitiva, insomma, ciascuno di noi riveste sempre il doppio ruolo di emittente e di ricevente dentro un processo continuo in cui non sarebbe possibile individuare un momento iniziale e uno di semplice risposta come nelle comunicazioni radio. Solo qui, infatti, posso per primo aprire la comunicazione, emettere il messaggio e, proferendo la canonica parola passo, rimanere in ascolto della risposta, e, alla fine, quella conclusiva del passo e chiudo. La comunicazione umana  non mediata da strumenti (detti appunto media) si caratterizza, invece, per un maggiore livello di complessità che comprende anche come mando il messaggio e come ascolto l’altro. A tutti sarà capitato di provare una sensazione di disagio, non a caso, se il nostro interlocutore, mentre rispondiamo ad una sua domanda, non ci presta attenzione. Il significato che ne traiamo è, per lo meno, che la nostra risposta non la reputa di grande interesse. Sino ad avere la certezza che la domanda ci è stata rivolta per altri motivi, non escluso quello di chiederci solo formalmente un parere per una decisione già presa. La sensazione sgradevole, che magari ci teniamo per noi a livello di semplice sensazione non suffragata da prove decisive, in verità, dipende dal quasi sempre trascuratoCOME che, invece, ci comunica che noi per il nostro interlocutore rivestiamo scarsa importanza.
Non solo, ma nella comunicazione umana in presenza, ecco perché la presenza non può essere sostituita nei rapporti umani e considerata superflua, un ruolo fondamentale lo assume anche il silenzio. Poiché anche non parlare, non rispondere, fare altro mentre gli altri si rivolgono a noi, esprime risposte più precise di quelle che pensiamo di non comunicare.

Non a caso la scuola di Palo Alto, che ha in Gregory Bateson il capofila, ha teorizzato che la prima regola delle comunicazione è che non comunicare sia impossibile. In conseguenza di ciò se a scuola ci hanno in qualche modo insegnato che comunicare coincide col prendere la parola, dobbiamo allargare l’orizzonte, sino a considerare che la comunicazione è la conseguenza di tutto ciò che facciamo. La comunicazione in altri termini non è solo grammatica ma è soprattutto pragmatica. Ecco che allora non troviamo più strano che tra noi e gli altri esiste un flusso continuo e circolare di messaggi in entrata ed uscita. E tutte le volte che pensiamo di fare qualcosa in risposta a ciò che altri fanno, a nostra volta, in simultanea, siamo anche noi stessi causa o concausa del comportamento altrui.

Persino l’assenza è comunicazione come sanno tutti quelli che sono stati “bruciati ad un appuntamento” (o lo hanno disertato). È sempre un momento sgradevolissimo che rende cruciale quello successivo per l’attesa delle spiegazioni che sentiremo, mentre aleggia pure l’incubo che neppure possa esserci un secondo appuntamento. Quale può essere la causa di tanta preoccupazione se non c’è stata alcuna parola in un incontro che appunto non c’è stato? Non sarà che abbiamo ricevuto un chiaro messaggio di allarme sul grado di interesse che nutre per noi chi non si è presentato? E se l’appuntamento fosse quello per celebrare le nozze?

Va fatta però una precisazione. Prendere atto del carattere circolare della comunicazione non significa in assoluto rendere tutto così fluido da rimanere invischiati in una spirale senza fine. Come quando da bambini cercavamo di giustificarci a seguito di una baruffa coi fratelli, con la classica frase ha cominciato prima lui.

Abbiamo comunque bisogno di relativi ma sicuri punti di riferimento. A questa esigenza soccorre, però, un altro concetto della pragmatica della comunicazione umana che la scuola di Gregory Bateson ha sintetizzato con la formula della punteggiatura degli eventi. Essi consiste appunto nell’attribuire a certi accadimenti la causa del nostro comportamento. Qualcuno potrebbe obiettare che così ragionando facciamo un passo indietro e tanto vale ritornare ad una causalità lineare applicata anche alla comunicazione umana. In realtà, qui si registra un altro motivo dell’attualità di Bateson nel suggerirci di essere abili nel tenere sempre distinti ma pure collegati i due aspetti. Punteggiare gli eventi risponde senz’altro ad un bisogno di linearità e di ordine da inquadrare comunque nella più ampia consapevolezza del funzionamento della comunicazione umana. Alla quale, appunto, non può applicarsi tout court la causalità lineare. Per chiarire questo aspetto gli stessi esponenti della scuola di Palo Alto fanno un esempio molto efficace. Dare un calcio ad una lattina produce un effetto che risponde alla causalità lineare. La lattina rotolerà in funzione della forza del calcio e del tipo di superficie su cui si trova. Ma dare un calcio ad un cane è già un altra cosa: se pure dovesse rotolare quasi mai non salta su a morderci. Se poi il calcio lo diamo ad una persona…
Del resto ogni scolaretto sa che non c’è contraddizione tra linea e cerchio, nella misura in cui la prima è un tratto del secondo. Quindi tutto dipende dall’ampiezza del campo di osservazione.

Ma cosa succede quando anziché vedere la realtà comunicativa in forma circolare, la vediamo in quella lineare e applichiamo il principio dormitivo?
Si verifica quel curioso processo di etichettamento, che abbiamo descritto in un altro brano, che comporta adoperare aggettivi, come quelli usati dall’insegnante nell’esempio fatto in apertura, per cui non ci fermiamo a dire che qualcuno ci ha pestato il piede ma l’ha fatto per farci un torto o addirittura perché è cattivo. Che poi basterebbe pensare al significato etimologico di questo termine tanto abusato per scoprire che non gli si rende giustizia col considerarlo il più chiaro prodotto del principio dormitivo.
Cattivo significa, infatti, catturato, sottinteso, dal diavolo. A ben vedere, dunque, neppure la cattiveria descrive una qualità intrinseca alla persona, ma raffigura pur sempre la conseguenza di una causa esterna.

Dunque, questo connubio tra causalità lineare applicata alla comunicazione umana e principio dormitivo produce quelli che abbiamo anticipato sopra essere i terribili blackout comunicativi. Per alleggerire il clima potremmo dire che il principio dormitivo spegne la luce nella comunicazione umana.

Non c’è  bisogno di dilungarci parlando dei danni che produce il blackout comunicativo. Basta solo pensare  del convincimento che l’essere additato come cattivo, non un giorno ma dacché uno è vivo, può portarlo a crederci fermamente. Senza che poi debba meravigliarci la successiva carriera criminale che intraprende per una naturale ambizione che,  per quanto in questo caso insana, in generale appartiene ad ognuno di noi. Ma che, nel caso del cattivo-incattivito, prende le sembianze nefaste della profezia che si autoavvera.

-segue-

Pier Gavino Sechi.