Con l’allentarsi delle misure restrittive per combattere il Covid-19, sono tanti gli spunti di riflessione che emergono. E tanti sono gli esercizi e i giochi del nostro patrimonio ludico, che possono essere considerati utili a rappresentare l’attuale situazione di incertezza e, soprattutto, l’atteggiamento col quale ciascuno potrebbe affrontare anche questa fase di un’esperienza che più volte abbiamo definito inedita.
Un primo esercizio, sicuramente espressivo in questa chiave, tratto dal nostro Percorsi di formazione alla nonviolenza, Torino 1992, è intitolato “Andiamo a… nuotare!”
Anche oggi questo strumento potrebbe rivelarsi molto utile per capire se il nostro abituale modo di affrontare i problemi intendiamo confermarlo oppure no. Di fronte alla necessità di riprendere i ritmi e le forme della nostra esistenza, dopo aver osservato scrupolosamente le misure di contrasto alla diffusione del virus, come intendiamo regolarci? Un respiro profondo e via con un tuffo senza neppure controllare la temperatura dell’acqua? Oppure intendiamo allentare la nostra tradizionale risolutezza e agire con maggiore cautela?
Tale necessità di riflessione è confermata dal fatto che sembra cambiata non solo la realtà in cui dovremmo immergerci, ma pure noi stessi, in quanto due mesi di lockdown, come si suol dire, non sono passati indenni neppure per noi stessi.
Il fatto è che la tanto sottolineata particolarità della specie umana, criticabile per l’ingombrante impronta ecologica che segna i suoi rapporti con l’ecosistema, in questo periodo, ha mostrato un altro tratto degno di nota. Ossia l’elasticità e la resilienza con la quale l’uomo è capace di abituarsi alle nuove situazioni. Di qui il proliferare sulla stampa delle descrizioni della sindrome della capanna (basta inserire queste tre parole in un motore di ricerca su internet e vi auguro buono studio per una settimana!) secondo la quale, mentre prima abbiamo avuto difficoltà ad abituarci ai limiti imposti dalle autorità, ora, viceversa, temiamo di non essere in grado di ritornare ai ritmi di prima. Con conseguenze non da poco, sul versante psicofisico, per chi già soffre d’ansia… A me tale capacità ricorda inoltre la lucida quanto spietata analisi che faceva Primo Levi. L’uomo sarebbe in grado di vivere anche in un buco se si tratta di sopravvivere. Ciò lo diceva per le persone perseguitate, ma l’analisi può essere estesa anche ai carcerieri e a coloro che sanno che questi sono all’opera, ma non intervengono rendendosi sopportabile persino lo sterminio di massa, banalizzando il male come diceva Hannah Arendt.
Qui persino assistiamo ad un intreccio sinistro tra l’azione della rimozione, che è un meccanismo difensivo automatico, e uno degli insegnamenti della scienza occidentale: ossia di fronte ad un problema la sua risoluzione richiede una sua divisione in problemi più semplici. Solo che quando si tratta di studiare fenomeni vitali, la sottrazione e la disarticolazione lascia per strada quel livello massimo di complessità che è la vita: frutto emergente dalla sinergia tra i livelli sottostanti.
In ogni caso, alla sindrome della capanna dovremmo sostituire la sete di ricerca di chi, nel mito della caverna di Platone, si avventura all’aperto…seppur con tutti i rischi, come sappiamo…
La metafora di un ambiente protettivo da abbandonare per uscire allo scoperto è quello usato in questi giorni anche da Vittorio Pelligra. Egli parla del sottocoperta della nave per raccontare la singolare vicenda dell’equipaggio di due navi rompighiaccio della marina britannica mandate per conquistare il famoso passaggio a nordovest. Quel tratto di mare ghiacciato, cioè, che separa il nord Europa e il nord oriente. Occupare quel quadrante geografico avrebbe significato far passare lì gli scambi commerciali con l’oriente con costi incomparabilmente più contenuti rispetto alle tradizionali rotte. Con conseguente conquista, da parte della Corona inglese, di una decisiva posizione strategica nel campo dei traffici internazionali. Ebbene, benché quella spedizione fosse stata equipaggiata secondo il massimo livello tecnologico del tempo, siamo a metà dell’800, nessuno ritornò a casa.
Dopo due consecutivi episodi di intrappolamento nei ghiacci, finite le provviste, infatti, i marinai furono costretti ad abbandonare le navi e a procedere a piedi nella terra degli Inuit. Quella natura, ritenuta fonte di immense risorse per le popolazioni locali, si rivelò una trappola mortale per i super addestrati marinai della Regina. Perché? In tre anni di durata della spedizione, essi non ebbero il tempo per adattarsi alle novità…troppo repentine…e non riuscirono a riprodurre in così poco tempo le competenze millenarie dei popoli dei ghiacci…i buoni selvaggi della visione eurocentrica…
Ecco perché prima del rientro, o dell’uscita in mare aperto, dobbiamo riflettere con attenzione e aggiornare il nostro bilancio delle competenze e lucidare gli attrezzi custoditi nella nostra valigetta delle competenze…senza sottovalutare l’attuale situazione solo perché, come abbiamo già detto, la guerra liquida in corso non ha sventrato i palazzi…
Nel descrivere la sindrome della capanna, non a caso, c’è chi ha opportunamente ricordato che essa si verificò anche all’indomani del crollo delle Torri gemelle. Anche in quel caso, infatti, dopo mesi di tentativi di metabolizzare l’accaduto, i cittadini di New York dovettero uscire dalla caverna…pardon dalla capanna. Anche in quell’occasione si trattava di riprendere contatto con una realtà profondamente mutata. dopo il duro colpo inferto dagli attentati ai veri fondamenti della civiltà occidentale: la libertà.
A ben pensare, però, qui come capro espiatorio, elemento che rende più agevole la mobilitazione delle risorse, non vi sono i terroristi islamici ma un virus invisibile e potenzialmente annidato dentro ciascuno di noi…
Questo è un altro fattore che si aggiunge al tema, che svilupperemo nel prossimo scritto, della complessità…
Pier Gavino Sechi.