Nel dare seguito al precedente scritto, dedicato al gioco delle Quattro tribù, per la cui descrizione rimandiamo ad esso, dal titolo omonimo, ci sembra importante ora riflettere su come utilizziamo il nostro tempo e se da questo punto di vista riteniamo di sentirci in grado di incidere sulla sua qualità. Ovvero se, al contrario, sentiamo di dover sempre di più difenderlo da aspetti della nostra vita che ne riducono la qualità, a causa dell’azione di quei fattori, di diversa natura, chiamati “mangia tempo”.
Può, infatti, essere di non secondaria importanza riflettere che la strutturazione del tempo, di ciò stiamo parlando, sia il corollario decisivo della libertà.
Principio supremo che rischia, infatti, di rimanere sulla carta, se poi in concreto la nostra agenda quotidiana presenta parti più o meno consistenti ipotecate da attività che non ci realizzano.
Ecco una forma di alienazione più ampia di quella denunciata a metà dell’ 800 rispetto al lavoro: oggi è alienato anche chi non può decidere la qualità del tempo a disposizione. Non è un caso, ad esempio, che, contrariamente a quanto comunemente si pensa, la pena dell’ergastolo è davvero terribile dato che chi la subisce si trova “dilaniato” tra le ristrette dimensioni del luogo di detenzione (poco spazio e molto tempo, ritornando al gioco delle Quattro tribù) e la dilatazione abnorme di un orizzonte temporale dentro il quale non può decidere pressoché nulla. Ne sanno qualcosa i condannati in via definitiva. Pagherebbero qualsiasi prezzo pur di avere anche un solo giorno in meno di pena da scontare…
Lo scarto tra libertà solo formale ed effettiva signoria sul proprio tempo è ben noto alle grandi dittature della storia, come ci racconta il bel libro di Jeremy Rifkin, Le guerre del tempo, Roma, 2000, dentro il più ampio tema dello sconvolgimento dei ritmi naturali provocato dall’attività umana. I dittatori, come noto, sono persino arrivati a rinominare i mesi dell’anno e a far ripartire l’orologio della storia dal giorno del loro avvento al potere. Ben inteso, non sempre e necessariamente chi ruba tempo lo fa per infliggere sofferenza, come costringere le folle a presenziare, per giunta “entusiaste”, alle grandi parate o all’educazione fisica inquadrata nell’idea del cittadino-soldato per tenersi pronto per l’appuntamento con la (sua) natura primordiale che avverrà con la guerra.
La mancanza di libertà, infatti, può assumere, persino, i riflessi dorati come nella strategia adottata dal Re Sole per rendere la sua corte dipendente da se e quindi inoffensiva: non a caso gli storici usano la metafora della gabbia dorata, per descrivere lo sfarzo della reggia di Versailles.
In ogni caso, a parte le riflessioni dei fisici teorici, come quelle di Carlo Rovelli nel suo libro, L’ordine del tempo, Milano, 2017, per i quali si tratterebbe di un fattore di cui si potrebbe fare a meno per la comprensione dei fenomeni osservabili a livello micro, invece, per la vita di tutti i giorni e per la comprensione dei fenomeni sociali, il tempo svolge un ruolo fondamentale.
Il che potrebbe apparire ovvio, tanto più che, in diversi campi, il tempo rappresenta una cosiddetta variabile indipendente: una linea retta unidirezionale cui fare riferimento per stabilire se un determinato fatto rispetto ad un altro avvenga secondo un rapporto di successione temporale, non necessariamente di causalità, oppure di simultaneità.
Per essere più precisi, però, è la misurazione del tempo che si presenta utile e sulla quale vi deve essere un accordo consolidato pena il venir meno dell’unica certezza per regolare le azioni che scegliamo di compiere: il nostro amico ritardatario difficilmente contesterà la precisione assoluta del nostro segnatempo, quanto, piuttosto, si impegnerà nel trovare la scusa più plausibile: il traffico, la macchina che non partiva, etc.
Dalla strutturazione del tempo potremmo ricavare molte informazioni che ci riguardano da vicino. Non solo dal punto di vista quantitativo, per cui se ho un lavoro che mi impegna per una quantità di ore inferiore ad una certa soglia, posso dire che sono un lavoratore a tempo parziale, etc. Ma soprattutto dal punto di vista qualitativo: per stare all’esempio, faccio o no un lavoro coinvolgente?
E’ contento del suo lavoro chi il lunedì già non vede l’ora che arrivi il fine settimana? E quanto l’orario continuato, da questo punto di vista, si è rivelato una soluzione per aumentare la produttività della burocrazia? Anche se il fine settimana arrivasse il giovedì (la cosiddetta settimana cortissima) si continuerà ad odiare il lunedì, se il lavoro continua a non piacere….E basta etichettare come illuso, o bamboccione, se è un giovane, chi aspira ad averne uno col quale realizzarsi? Può consolare l’alibi per cui ci saranno sempre lavori noiosi, sporchi e pericolosi che pur qualcuno deve fare ma soprattutto che forse nessuno sceglierà mai? Ed è la soluzione darli in mano (pardon in zampa…) ai cani robot fabbricati dalla Boston Dynamics? Non si apre qui un nuovo tipo di ricatto, oltre a quello tradizionale tra salute e lavoro, che impone di scegliere tra sacrificare il lavoro o la privacy?
Ciò non toglie che neppure è auspicabile, come si è rischiato durante la fase di emergenza sanitaria, il far coincidere il tempo vita col tempo lavoro, dato che è anche questo una forma di alienazione. Tanto da portare i sociologi e gli psicologi del lavoro ad individuare la sindrome della dipendenza dal lavoro (il cosiddetto workaholism). Anzi, si tratta di un fenomeno molto insidioso, data l’alta accettabilità sociale dello stacanovismo, spesso ammantato di generosità e persino di altruismo. Se poi si crede al detto orientale che è saggio colui che non distingue tra il tempo di vita e il tempo del lavoro…come quello di Confucio, scegli il lavoro che ami e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua…. la frittata è fatta.
Fatto sta che mentre per misurare il dato quantitativo è sufficiente quello cronologico, il versante qualitativo lo posso misurare ricorrendo a parametri diversi dal mero scorrere del tempo.
E’ nota la antica distinzione tra Kronos e Kairos, di cui parliamo anche nei nostri manuali proprio per riferirci a queste due forme di rapporto col tempo.
Essa mi sembra fondamentale, sia per evitare di misurare allo stesso modo due fenomeni profondamente diversi, sia per attirare l’attenzione sul ruolo che abbiamo nello spostare l’ago della bilancia delle nostre 24 ore di vita quotidiana, verso l’uno o l’altro.
Quanto tempo passiamo in attività che ci mangiano il tempo “giusto” ossia quello che consideriamo degno di essere vissuto (Kairos)? E quanti sono invece i cosiddetti tempi, non a caso, definiti “morti” cronofagi o cronovori?
Riprendiamo quindi in parte gli interrogativi del brano precedente. Che possibilità di scelta abbiamo in tal senso?
Dopo la parentesi dell’emergenza sanitaria, in cui abbiamo vissuto sul versante tempo un “impazzimento” dell’ago della bilancia (oltre a quella del peso), al rientro graduale (sperando di scongiurare un nuovo tsunami…) siamo o no maggiormente in grado almeno di renderci conto del suo stabilizzarsi sul punto che segna il bilanciamento o lo squilibrio tra tempo significativo e tempi morti…?
Le moderne tecnologie sino ad un certo punto hanno alleggerito l’impatto dei tempi morti grazie a dispositivi che ci permettono di ammazzare i tempi (già) morti con le forme di lavoro agile (puoi lavorare anche in autobus, in fila all’ufficio postale e sempre di più con la guida autonoma, anche in auto, sempre più trasformata in ufficio mobile) o con i videogiochi o passatempi.
Una difficoltà di gestione del tempo può avere diverse cause, che possono andare dalla classica scarsa capacità ad organizzare la propria agenda di vita, sino ad una vera e propria perdita della cognizione del tempo.
Interessante è lo spazio intermedio in cui l’ago della bilancia, pur sotto il nostro controllo, tende a non spostarsi a favore del piatto occupato da attività per noi soddisfacenti. Ciò è dovuto a quelle attività cronofaghe o cronovore che ci sembra impossibile evitare, e forse lo sono davvero: le due ore di macchina a passo d’uomo per rientrare casa dopo il lavoro indubbiamente rientrano tra queste.
A volte questo tipo di attesa è frutto, invece, di precise scelte finalizzate a ridurre gli spazi di azione allo scopo di incrementare i consumi, che si possono tradurre nella progettazione di contesti fisici (come i centri commerciali) appositamente strutturati per trattenere il più lungo possibile l’acquirente e indurlo all’acquisto di beni.
La proiezione a livello macro di tale schema porterebbe persino a rendere sempre più anticipata l’età anagrafica rispetto alla disponibilità dei beni, come, ad esempio, l’uso del telefono cellulare o dei veicoli attraverso l’abbassamento del limite di età in cui poter conseguire la patente.
Tale anticipazione avrebbe la conseguenza, ad esempio per un autore come Alberto Pellai, di disallineare il momento di disponibilità di quel determinato bene, rispetto alla fase evolutiva in cui sono mature le competenze per comprendere appieno le implicazioni del suo uso e le conseguenze dannose di un uso improprio. Per indicare tale fenomeno di precocizzazione l’autore ricorre alla formula Tutto troppo presto (TTP).
Ancora più marcato, da questo punto di vista, invece, sarebbe quel tipo di analisi che ai fenomeni appena descritti associa una pressoché assoluta impossibilità di reazione, finendo per trasformare il pur lodevole tentativo di approfondire la descrizione del loro funzionamento, in un messaggio di immodificabilità, col conseguente paradosso di rinforzarne l’azione. Un po’ come accade per l’indicazione sulla confezione del prodotto nocivo degli effetti cui il consumatore si espone nell’assumerlo. Più informazione non garantisce, difatti, maggiore capacità dissuasiva dall’uso mentre, viceversa, potrebbe attivare meccanismi di difesa, come la rimozione della pericolosità degli effetti. Questo approccio, una sorta di millenarismo laico, in ultima analisi sembra vittima, neanche a farlo apposta, di una vera e propria trappola del tempo: siccome ci sembra sia scaduto il tempo massimo, non ci resta che aspettare la fine…non valendo più neppure la pena di iniziare (o proseguire) a tentare di modificare la rotta verso il precipizio…In fondo si tratta di un approccio pessimistico che, mettendo fuori gioco la “pazienza”, affonda le sue radici nella constatazione (e però anche nell’attesa non confessata…chissà) del fallimento storico delle rivoluzioni basate (e quasi tutte lo sono state) sull’idea dell’uomo nuovo. Una sorta, fosse possibile, di aspirazione ad un nuovo Big Bang paradossale, in quanto implicherebbe la scomparsa anche della nostra specie ma senza la certezza delle sua ricomparsa.
Nell’ottica, invece, di accompagnare alla descrizione, indicazioni per affrontare questo groviglio, ci sembra più utile fornirle sia sui versanti personale e dei contesti di vita, come fa lo stesso Alberto Pellai, che sul significato da dare ai contesti in cui si sviluppano le relazioni prevalentemente tra pari: la scuola e le agenzie educative dei territori (biblioteche, centri di incontro e sociali, ludoteche etc.)
Al fine di migliorare nella gestione del tempo, occorre partire dal livello personale, che grazie alle nuove forme di comunicazione può diventare subito viral-planetario, conciliando pazienza e rapidità. E dopo aver messo tra parentesi l’idea che il tempo sia una variabile indipendente dalla nostra volontà, potremmo concepire quei contesti come luoghi in cui lo scorrere del tempo sia regolabile e calibrabile in funzione dei bisogni delle persone.
In altri termini cercare di diminuire la velocità imposta dai ritmi esterni, per stabilire ritmi più a misura di dimensione umana: da quello circadiano a quello dell’alternarsi tra ascolto attivo e parola, dal tempo dell’attesa che rinforza il desiderio e valorizza la scoperta a quelli della lettura. Senza il recupero dei sensi, come si può, infatti, riuscire a sviluppare il “sesto senso” ossia il senso critico? E senza questo, quali movimenti per il clima possono guardare lontano? Il nemico da vincere infatti non è la diversa sensibilità, ma è l’insensibilità…nel senso di incapacità a sentire i sensi…I veri nemici sono in fondo l’indifferenza e l’astrattezza. Ripensando all’insegnamento di Gregory Bateson in Mente e Natura, Milano 1984, non solo confondiamo la mappa col territorio, ma ci siamo perduti persino dentro la mappa…
Contrapporre al denunciato TTP una sorta di GIOCAST (gestire intensamente ogni cosa a suo tempo) potrebbe così portare alla ristrutturazione di spazi, altrimenti destinati a rimanere funzionali ai ritmi esterni, spazi nei quali, invece, sono le persone che decidono la strutturazione del tempo.
Tali macchine del tempo, ma molto utile potrebbe essere anche la metafora dell’astronave, usata in economia per rappresentare la finitezza delle risorse del nostro pianeta, per cui si veda Kennets Boulding, The economics of the coming spaceship earth, in Environmental Quality in a Growing Economy, Baltimora 1966, permetterebbero di passare dalla fase di disintossicazione dai gesti automatici di uso distorto del tempo, sino al recupero della socialità, secondo l’idea della Clinica del legame che Miguel Benasayag e Gerard Schmit descrivono nel loro libro L’epoca delle passioni tristi, Milano, 2004.
Ma come negoziare lo statuto di queste piccole repubbliche indipendenti?
Di ciò ci occuperemo nel prossimo scritto.
Pier Gavino Sechi.