Simboli

Premessa.

Il gioco che presentiamo oggi, Simboli (vedi al termine del brano), si pone in ideale continuità con quello, dal titolo Torri, oggetto dello scritto della settimana scorsa.

In entrambi i casi si mettono in evidenzia le potenzialità del lavorare insieme e del gruppo.

L’intera proposta del training alla nonviolenza, in effetti, fa del gruppo il suo elemento decisivo. Solo la forza della coesione di un insieme di persone che condividono gli stessi ideali e gli stessi obiettivi può portare più facilmente alla meta pur davanti a difficoltà insormontabili per il singolo.

La qualità del gruppo.

Nel gioco di oggi si avanza persino l’idea che, assodata la sua inconfutabile importanza strategica, vi siano forme organizzative di gruppo più efficienti di altre. E ulteriormente che quella decentrata sia più efficiente di quella accentrata.

Va detto, però, che tale visione non corrisponderebbe del tutto al carattere pragmatico dell’iniziativa nonviolenta. La quale, non diversamente dall’opzione militare, presenta un grado di flessibilità delle forme di azione in funzione della situazione concreta. Ad esempio, in caso di folta partecipazione di persone ad una campagna di mobilitazione, i cosiddetti gruppi di affinità eleggono dei portavoce che in caso di riduzione dei tempi decisionali prendono le decisioni necessarie.

Rinunciare alle armi per il  nonviolento non significa, infatti, rinuncia a competenze strategiche. Con un necessario ulteriore chiarimento. L’insegnamento gandhiano dimostra che l’opzione della nonviolenza, proprio in quanto non è la scelta del codardo, non presuppone a priori la rinuncia ad usare l’arma se è l’unico modo per fermare un pericolo in atto.

Ciò cui si rinuncia è il considerare le armi l’unica forma di difesa che ipotechi importanti aspetti organizzativi e culturali delle società. Qualora si dovesse ricorrervi, invece, deve rimanere l’eccezione che conferma la regola. Celebre è, in tal senso,  l’esempio gandhiano del ricorso all’arma per fermare chi stesse facendo strage degli abitanti del nostro villaggio.

Quale  tipo di gruppo?

Ma che gruppo è quello di cui si parla nell’esperienza del training alla nonviolenza?

E’ un tipo di Torre in cui ciascuno mette la propria pietra sopra quella dell’altro per raggiungere sempre maggiori vette e distinguersi, come nella metafora biblica? O un tipo di formicaio legato da regole simili a quelle dettate dall’istinto degli insetti?

In realtà poichè, come abbiamo accennato in un precedente scritto, il gruppo vien considerato come il simbolo e la mappa della realtà esterna, ecco che di questa ne  costituisce l’interfaccia. Una sorta di cerniera o, in senso metaforico la, di bussola (nel senso di ambiente che separa ed insieme unisce due ambienti diversi) non indifferente, però alle caratteristiche degli individui che ne fanno parte.

Dal gruppo rifugio al gruppo anticipatore degli obiettivi.

In quanto, si capisce bene,  c’è una grande differenza a seconda che il gruppo venga vissuto come una sorta di “rifugio consolatorio” utile a sopperire alle proprie lacune. Ovvero come luogo di incontro tra persone che ne hanno bisogno per  realizzare concretamente quanto da soli non sarebbe possibile ottenere.

In verità la scelta di far parte di uno o più gruppi non è mai stata oggetto di alcuna particolare riflessione, soprattutto prima di questa fase condizionata dalla pandemia, e ancora prima, quando il web ancora non era entrato in scena a proporre l’appartenenza a comunità virtuali. Appariva come un gesto naturale. E le eventuali dinamiche cui un gruppo da vita vengono attribuite a caratteristiche individuali: timidezza, curiosità, etc.

Tutte le esperienza in senso lato politico, invece, richiedono una maggiore connessione tra la disciplina individuale e le dinamiche interne al gruppo. Esigenza che nel caso della cultura nonviolenta appare più pressante in forza del nesso tra mezzi  e fini. Nessun rinvio dei fini perciò. La vita del gruppo incarna già in partenza gli obiettivi da realizzare. Che così, attraverso la testimonianza, non più isolata e tipica di chi predica nel deserto ma assunta come compito dall’intero gruppo, si cercherà di rendere accettabili anche all’esterno.