Sagome dopo il naufragio

Lo strumento di cui parliamo oggi (vedi sotto) ha una storia particolare. E’ nato come variante del gioco Ritratto ma con l’andare del tempo si è guadagnato una sua autonomia e viene usato, col nome di Sagoma, tutte le volte che si tratta di illustrare le caratteristiche (qualità, competenze, pregi, etc.) di qualche figura o ruolo sociale. Come ad esempio le qualità del buon trainer, del buon maestro, etc.

Da questa sua funzione vorremmo partire per riflettere sulle caratteristiche e qualità a noi necessarie per venire a capo di questo momento storico (per usare un’enfasi magari non adatta al taglio di leggerezza e brevità imposte ai brani leggibili in un sito web).
Perciò, come detto nel brano precedente, intitolato La metafora dell’acqua e la vendetta della fisica del 14 agosto scorso, questo articolo ha lo scopo di presentare una nuova fase di contributi nei quali si esamineranno quelle diverse caratteristiche cercando anche di scendere sul piano pratico proprio delle proposte educative.

Come se prima di iniziare un viaggio dovessimo preparare per bene oltre la valigia (metafora che sin qui abbiamo usato per parlare di concetti, idee e strumenti tratti dalla nostra tradizione ludica) anche l’equipaggiamento da indossare (come Don Chisciotte, un cavaliere della tavola rotonda, un astronauta). Dunque il filo conduttore della metafora del viaggio ci permetterà ancora una volta di saldare alla tradizione la riflessione su ciò che oggi dovremmo saper essere, fare e pensare per navigare o, più prosaicamente, nuotare a vista, in quello che Serge Latouche chiama, così il titolo italiano di un suo libro, Il pianeta dei naufraghi, Torino, 2017.

Il naufragio è una metafora post-liquidità, nel senso che ci fa fare letteralmente un bagno di realtà mettendo tra parentesi i vantaggi, che pure ci sono, della società liquida. Diciamo che ha già preso atto della liquidità e ci chiede ora cosa dobbiamo saper fare per stare a galla. Tenendo conto che il naufragio rappresenta certo una situazione assai problematica ma con margini di azione ben maggiori rispetto al precipitare: è un’ovvietà, ma stare a galla è possibile più che provare a volare dopo che a rompersi è stato l’aereo.

Con queste osservazioni vogliamo non sottrarci, così, alla drammaticità della situazione sfatando l’idea magari, siccome usiamo il gioco come pratica educativa, che il nostro compito sia come l’orchestra surreale del Titanic che continuava a suonare per distrarre i naviganti dall’ imminente affondamento della nave. Anzi educare che la vita è un gioco significa richiamarci ad un significato del gioco per cui non solo esso non è (solo) sinonimo di evasione, ma è una metafora per concepire la vita come un percorso costellato di imprevedibilità che cerchiamo di governare. Come una nave appunto, che solca le onde ma nello stesso tempo ne sa assecondare le spinte. Da qui i tentativi che facciamo di non prendere le onde di petto, come le vele che sono fatte per sfruttare i venti da qualsiasi quadrante provengano. Con queste parole riteniamo quindi non di chiamarci fuori da quel clima generalmente definito come nichilistico, ma di evitare di ingrossare le fila di coloro che sembra facciano a gara per dipingere la realtà il più distopicamente possibile, col concorso del complottismo a giuste dosi. Pensiamo che sia meglio onorare il genio di George Orwell e il suo capolavoro 1984, andando a rileggerlo piuttosto che cadere nella tentazione di aggiungere una pennellata a quanto già dipinto in maniera magistrale. Ciò che vorremmo fare è, invece, e coerentemente giocare. Proprio ora che il gioco è diventato duro, durissimo, vorremmo continuare a testare l’utilità pratica delle nostre idee e del nostro lavoro. Ciò non significa, appunto, indorare la pillola di una realtà difficile, ma (continuare a) rimboccarci le maniche per fare in modo che le persone, tutte e nessuna esclusa, possano usare le proprie energie per dominarla cercando di realizzarsi.

Ciò può sembrare utopico ma lo riteniamo obbligatorio quantomeno nei confronti delle nuove generazioni che accusano la nostra di avergli rubato il futuro. Il nostro tentativo sia visto perciò quantomeno come un indennizzo se proprio non possiamo risarcirle del danno.

Perché nel generale relativismo delle idee e dei valori alcuni punti possono essere considerati fermi. Mi ricorda un aforisma secondo il quale solo il dolore è vero.

Per procedere, perciò, inizieremo col riprendere l’opera di Gregory Bateson, Mente e Natura, Milano, 1989, riferendoci in particolare al capitolo dal titolo ogni scolaretto sa che, dal quale trarremo spunto per attrezzare l’equipaggiamento del naufrago facendolo diventare in qualche modo ogni terrestre dovrebbe sapere che, col fine di fissare alcuni punti fermi, come delle consapevolezze generali che nessuno dovrebbe ignorare proprio in quanto abitante di questo pianeta. Noi aggiungeremmo qualche nostra osservazione per inquadrare questi aspetti in un percorso dal taglio evolutivo, nella speranza che Bateson, oltreché rivoltarsi nel giaciglio dell’eterno riposo, non venga di notte a chiedere conto delle eventuali offese.

Il secondo passaggio si ispirerà al lavoro, presentato nel brano della settimana scorsa, di Enrico Cheli sui creativi culturali.  Ne tracceremo l’identikit, come usando il gioco della sagoma, cercando di chiederci come, e dove, si possono educare le persone affinché acquisiscano le caratteristiche che l’autore attribuisce loro.

Una terza fase, infine, tratterà alcuni temi come se si trattasse di organizzare su ciascuno dei veri e propri training, sia pure brevi, di cui proporremo quantomeno l’agenda, cioè l’insieme dei giochi, alcuni tratti dal nostro patrimonio ludico, ma sicuramente altri inventati per l’occasione, necessari a trattare la tematica in modo coinvolgente. Molti giochi, appunto, sono andati ad aggiungersi a quelli originari incentrati sulle tematiche classiche della difesa nonviolenta, sulla spinta della necessità di trattare in modo interattivo argomenti che nel tempo hanno dato vita ai cosiddetti training tematici.

Cercheremo, dunque, di riprodurre il percorso logico-creativo che portava a definire la struttura di un vero e proprio training.

Una ultima considerazione. La parola training, usata sin dagli inizi per identificare un’esperienza formativa, ha anche il significato di esercizio. E questo non è soltanto quello che si propone ai partecipanti nelle sessioni formative, ma costituisce quell’abitudine a guardare la realtà come se fosse un training. Da questo punto di vista parleremo degli esercizi che addirittura provocano un quantomeno momentaneo dissolvimento dei confini tra ciò che si vive all’interno del training e quella che convenzionalmente viene considerata la realtà Vera.

Guardare la realtà come se fossimo all’interno di un training implica quantomeno due conseguenze:

-percepire la realtà nella sua caratteristica inconfutabile del suo continuo mutamento, che si tratta, dunque, come dicevamo sopra, di governare il più possibile;

-individuare costantemente dei contributi culturali utili a ottenere l’effetto del cambiamento inizialmente anche solo percettivo della realtà. Ricordando il contributo di Karl Popper, I tre mondi, la letteratura e la storia da essa veicolata, ma in generale la produzione artistica, rappresenta in questa chiave un bacino di idee utili allo scopo suddetto.

Con ciò potremmo dire emerga quella che alla fine è una competenza preziosa che si acquisisce col training (sia per il trainer che per i cosiddetti trainati), cioè cercare costantemente di intravedere nelle idee la loro capacità di incidere sulla realtà.

Non è un caso che i libri in cui abbiamo raccontato l’esperienza del training alla nonviolenza e dei quali stiamo illustrando i giochi e gli esercizi, li abbiamo definiti dei manuali (e appunto non dei ricettari). In quanto utili al fare.

La proposta è che tutto il sapere, sia che sia celebrato nei musei che appreso nelle scuole, possa essere visto da questo punto di vista. Solo così la cultura se non ci da direttamente da mangiare (ingoiando il rospo della provocazione ancora viva/o), ci fa sentire il gusto del vivere. Perché tutti i nichilisti sembrano dire che nel naufragio, letteralmente nella rottura della nave, abbiamo perso il senso (e quindi i sensi) dell’esistenza. La sfida sta, specie per il nichilismo attivo, credere che sia possibile ridestarli.

 

 

Pier Gavino Sechi.