La corsa della solitudine (parte seconda)

Introduzione

Non pochi avranno notato che sinora abbiamo trascurato di dare conto dell’utilità del gioco Corsa della solitudine presentato già nel brano precedente, dal titolo Corsa della solitudine (prima parte).
E soprattutto  alcuni, forse, avranno cercato di cogliere, leggendone la descrizione, che per comodità riportiamo alla fine anche di questo brano, come possa conciliarsi con quanto  sinora detto sul principio dormitivo.

Dal principio dormitivo alla visione relazionale

Ebbene, è presto detto. Tale concetto, tra i più interessanti tra le proposte di Gregory Bateson, è un invito a guardare la realtà con occhi nuovi. Difatti, grazie ad esso, non la vediamo più costituita da oggetti tra loro isolati. Bensì, legati dalle relazioni che intercorrono tra loro. Del resto, se ci pensiamo, molte delle stesse forze che pure ci legano e legano le cose tra di loro, e queste a noi, mica le vediamo.  Eppure, per esempio la forza di gravità, tiene insieme persino pianeti e stelle.
Gli occhiali che ci consegna Bateson, perciò, se proprio non ci permettono di coglierle, tuttavia ci inducono a prenderle in considerazione. Per cui possiamo dire, ad esempio, che se un oggetto attrae, è anche a sua volta attratto secondo un processo circolare.

Il principio dormitivo, così, sposta l’attenzione da ciò che riteniamo sia dentro le cose, a ciò che succede tra esse. Quindi al di fuori di esse. Questo cambio di prospettiva è la vera radice che alimenta molta parte delle scelte educative. Dalla necessità di distinguere l’errore dalla persona che lo commette alle cautele che prevengono i black out comunicativi.

La visione multifattoriale

Per chiarire: non significa cedere al buonismo o a un malinteso ultragarantismo se cerchiamo le cause che stanno alle spalle di chi compie un atto dannoso (sarebbe persino un interessante nuovo gioco da aggiungere al nostro patrimonio ludico). Ma fare una lettura multidimensionale della realtà. Utile non tanto per mitigare la responsabilità dell’autore (il diritto deve fare il suo corso anche a tutela delle vittime), quanto per agire in chiave preventiva. Che non può prescindere da una visione multifattoriale dell’agire umano.

La responsabilità (mai assunta) dell’ingegneria sociale

Del resto, dal comportamentismo, letto in chiave probabilistica, sino a concepire, come proponeva Francisco Varela, l’io come una entità temporale che prende corpo in relazione agli avvenimenti che lo investono, si sviluppa un filo per interpretare le persone e le loro azioni in chiave relazionale. Cosicchè la prevenzione può spostare il fuoco della responsabilità dalla persona anche a coloro che hanno il potere decisionale. E possono incidere sui fattori macro che rendono più o meno probabili determinati comportamenti. In altri termini, alla politica e ai tecnici chiamati a progettare i sistemi.

Il dovere della riflessività

E’ curioso come sinora non si sia giunti ancora a trarre queste possibili conclusioni. Forse perchè un comportamentismo preso sul serio può essere molto scomodo? E non sarà perchè in questo modo anche chi progetta i quartieri non a misura d’uomo e di bambino, potrebbe essere chiamato a rispondere dei costi sociali del disattamento? Non sarebbe così se artisti e tecnici autoriflessivi, secondo la proposta di Donald Alan Shön, di cui l’opera Il professionista riflessivo, Bari 1993, dialogassero e stringessero una sacra alleanza.

I limiti della tecnica

Rimane indelebile, infatti, ciò che confessa Roberto Vacca in Il medioevo prossimo venturo, quando dice che i progettisti disegnano le opere, dalla strada ai quartieri delle città, calcolando solo i rischi prevedibili di livello standard secondo il trend storico. Costerebbero troppo, infatti, costruirle secondo standard di sicurezza più elevati. Lasciando alla fase della manutenzione decidere cosa fare in caso di significativi cambiamenti del contesto.

Sennonchè a questo punto occorre ricordare che, secondo l’insegnamento precedentemente analizzato, la mappa, ossia la rappresentazione che ci facciamo della realtà, è cosa ben diversa dal territorio, cioè la realtà esterna. Dalla progettazione a tavolino sino alla avvenuta costruzione di un opera non ci sono solo le incognite della fase  esecutiva. Ma occorre fare i conti con la assommarsi degli scarti impercettibili tra la decisione e tutte le micro operazioni che compongono l’attuazione. Tutto ciò, unito all’ulteriore incertezza della reazione dei materiali, porta il collaudatore al paradossale momento in cui deve sperare, forse persino chiudendo gli occhi, che tutto vada (abbastanza) bene.

I limiti della scienza

La scienza stessa, che secondo Bateson non scopre nulla, ma spiega soltanto sembra impegnata in una propria Corsa della solitudine. Procedendo,  così, a tentoni e confidando nella serendipità, aggiungiamo noi. Spinta dall’idea che prima o poi troverà molto più di quanto non stia effettivamente cercando. Vale la pena perciò non fermarsi. Anche su questo tratto credo che Umberto Galimberti basi l’assunto che la tecnica è il cuore della scienza, non il braccio operativo.

Tenere gli occhi chiusi, nel gioco Corsa della solitudine, costituisce una regola ben precisa, sebbene il trainer non fa alcun controllo sul suo rispetto.  Tocca al giocatore scegliere la combinazione  tra la velocità della corsa e quanto tenere gli occhi chiusi. E’ rarissimo, infatti, che qualcuno, tenendo gli occhi completamente chiusi, corra all’impazzata verso la schiera di persone che limita lo spazio a disposizione. Ma se lo facesse, sarebbe segno di sprezzo del pericolo o di estrema fiducia nelle persone che lo fermeranno prima dell’impatto? Audacia o fiducia? O fiducia in se stessi e negli altri?

L’ambivalenza dei processi

Ma dove passa la linea di confine tra una proprietà attribuita alla persona  (l’audacia) e quello riferito alla sua relazione con gli altri (la fiducia)? Ci sono dunque aggettivi, come le parole poetiche in letteratura, più inclini ad esprimere la dimensione solo personale e altri più “relazionali”? Come nell’esempio sopra, infatti, chi ha fiducia è difficile che ce l’abbia solo in se stesso senza averne, in qualche misura, anche negli altri. L’audacia, invece, sembra richiamare realtà alternative: credo in me e non negli altri. Peraltro senza escludere che il credere in se stessi possa persino essere conseguenza del fatto che non si crede negli altri.

L’esempio del rapporto tra adattamento e assuefazione

Questa ambivalenza nel guardare ai fenomeni, Bateson la gioca mettendo in relazione due concetti solo in  teoria distinti.  Ma che, invece, nell’andamento dinamico dei processi, hanno confini molto più sfuocati. Si tratta dell’adattamento e dell’assuefazione che noi intendiamo applicare all’innovazione tecnica.

Ogni novità, in principio, serve per rendere più agevole l’adattamento, sia a livello di specie che a livello personale. Per menzionare  così le due dimensioni di appartenenza che Bateson ritiene causa di non pochi problemi e contraddizioni. Ciò in quanto sono due livelli  in cui una soluzione valida per l’uno non necessariamente si rivela tale per l’altro (secondo la teoria dei tipi logici).

Ma quand’è che dall’adattamento si scivola nell’assuefazione che spinge ad incrementare le soluzioni adattive?
Lo stesso Bateson dice che se in passato ogni invenzione appariva benefica, oggi, ai nostri occhi più acuti, non  è più così. Siamo maggiormente in grado oggi di valutare, in chiave di ambivalenza, gli effetti collaterali di ogni innovazione. Quelli che in economia vengono indicati come esternalità negative. Ciò anche se non possediamo ancora alcuna conoscenza sistematica di questi processi in cui un fenomeno inizia con un certo segno e ad un certo punto si trasforma nel suo opposto. Ma soprattutto, non riusciamo ancora a stabilire quando ciò esattamente avvenga.

Le fasi dell’innovazione e i suoi effetti collaterali

Per Bateson questa trasmutazione avviene secondo le seguenti fasi (che noi parafrasiamo con riferimento alle innovazioni):
1)-appena si introduce una innovazione il resto del sistema, dopo una fase di incertezza, cambia, fino ad accerchiare l’innovazione per renderla irreversibile
2)-il contesto cambia rendendo necessario un’ ulteriore innovazione dello stesso genere
3)-la flessibilità del sistema si esaurisce e inizia un processo di esaurimento per eccesso di sfruttamento
4)-ciò che nel breve periodo appariva desiderabile nel lungo periodo si rivela disastroso
5)-l’innovatore inizia ad agire come se non fosse più parzialmente dipendente dal contesto. Ha inizio la sua corsa della solitudine.
6)-l’innovatore sarà costretto a perpetuare lo sforzo di mantenere costante un certo ritmo di cambiamento.

Il principio di precauzione

Per fare fronte agli effetti collaterali dell’innovazione sarebbe utile, perciò, chiamare in causa il principio di precauzione.
Di che cosa si tratta? E quali contributi può dare nella presa delle decisioni? La corsa della solitudine, in fondo, non consiste nel cercare un equilibrio tra spingersi in avanti e la precauzione?
Sarà compito del prossimo brano approfondire la tematica.

Pier Gavino Sechi.