Premessa.
Il percorso che abbiamo ironicamente definito iniziatico del brano precedente impone una certa risposta alla domanda su che cosa sia vero e che cosa non lo sia. Specie se ciò sia il frutto di un ragionamento che porti ad una valutazione. Questione che riteniamo importante quando parliamo di come si stabilisce un risultato o una meta da raggiungere.
Dal percorso che abbiamo tracciato risulta che la fissazione della meta corrisponda ad intento regolativo. In altri termini non è tanto importante determinarla in concreto quanto, soprattutto, continuare a calcolarla alla luce della variabilità dei parametri necessari. Un po’ come quando siamo alla guida di un veicolo e anche se percorriamo un rettilineo abbiamo la necessità costante di agire sul volante per operare gli aggiustamenti necessari per mantenerci alla giusta distanza dalla linea di mezzeria. Figuriamoci poi se fossimo alla guida di una nave.
La superfluità della modestia
Quando però si tratta di obiettivi che riguardano il frutto di valutazioni, come ad esempio, abbiamo fatto bene un certo lavoro o, ancora di più, quando dobbiamo stabilire se il nostro agire è stato efficace nei confronti di altri, le cose sembrano destinate a complicarsi.
Per cui dobbiamo convenire che la valutazione dipenderà da un alchimico incrocio tra le nostre aspettative e il grado di soddisfazione espresso dal nostro interlocutore. Si giunge cioè ad una sorta di “accordo”, per quanto implicito, su un giudizio determinato.
Senza però dimenticare che quando parliamo di valori relazionali, sul piano pratico maggiore rilievo assume maggiore importanza il giudizio di chi riceve. Difatti sarebbe poco utile sostenere che siamo stati efficaci nel tenere, per esempio, una determinato resoconto su una certa questione, se poi chi da essa dovrebbe ricavare gli elementi per prendere una data decisione dichiara che siamo stati poco chiari. Ribattere picati che invece lo siamo stati ci farebbe finire su un binario morto. Tanto vale accettare l’obiezione (ricordate la virtù di saper accettare le critiche tipiche dell’assertivo?) e mandare a mente che d’ora in poi, ad esempio, ci sarà molto utile, ad esempio, stare più attenti e accertarci man mano che svolgiamo i nostri resoconti, se chi ci ascolta lo sta facendo davvero e soprattutto ci sta capendo. Tutto ciò per evitare di renderci conto dei risultati solo alla fine.
Anche in questo caso, il diavolo che come un virus è sempre in noi pronto a manifestarsi non appena se ne presenti l’occasione, potrebbe porci la domanda se non siamo stati un poco arrendevoli nell’accettare la critica. Ma l’angelo che è altrettanto in noi ci potrebbe ricordare che obbedire al diavolo a chi gioverebbe (cui prodest? dicevano i Latini). Resistere alla critica in modo simmetrico ci potrebbe persino portare a far ritenere che temiamo i nostri errori e soprattutto che abbiamo “consumato” i nostri margini di miglioramento.
……..CONTINUA——
Pier Gavino Sechi