Creta vivente piedi di argilla

Premessa.

La prima parte del titolo del brano di oggi, Creta vivente piedi di argilla, è il titolo di un altro semplice quanto importante gioco del nostro patrimonio ludico:  Creta vivente (vedi sotto). Esso vuole simboleggiare la malleabilità di ciascuno di noi di fronte alle sollecitazioni efficaci.

In ciò si esprimono il nostro ottimismo e la rinuncia al determinismo, in nome del quale siamo portati a credere che non siano possibili cambiamenti personali.

Una spinta a credere nel cambiamento ci viene, invece, dagli stessi studi nel campo delle neuroscienze con la malleabilità persino dell’intelligenza, di cui è stato il teorico Reuven Feuerstein

Continuando, perciò, quanto abbiamo esposto nello scritto della settimana scorsa, è proprio l’ottimismo, ciò su cui si fondano le due strategie percorribili dall’assertivo. Per sottrarsi all’ accerchiamento da parte delle altre posizioni esistenziali presenti nel contesto. Che si tratti di un gruppo o di un ambito più ampio, come, ad esempio, un’azienda.

Le strategie dell’assertivo

Una prima scelta possibile è sicuramente quella di abbandonare il campo. Per fortuna, infatti, non è più ritenuto socialmente negativo uscire dal gioco se non si vuole affrontarne i rischi. Sono gli stessi maestri animali che ce lo hanno sempre insegnato (abbiamo visto qualche settimana fa come John Bowlby abbia riconosciuto quanto la sua teoria dell’attaccamento abbia preso dagli studi etologici). Persino il leone si allontana, senza perdere l’eleganza, quando si accorge che le forze in campo sono troppe rispetto alle sue. Difatti, anche le iene, se in branco, possono costituire una seria minaccia da questo punto di vista. Perciò  se i morsi della fame non costringono a gesti disperati, può prevalere la strategia di desistere dall’attacco.  Anzi, persino di mettersi a distanza di sicurezza.

Col declino dell’approccio militaresco all’esistenza, resistere sino alla morte non è più una virtù. Di questo ci parla un libro da tenere sempre a portata di mano. E’, di Henri Laborit, L’elogio della fuga, Milano, 1982.

Naturalmente, il concetto di fuga, di cui parla l’autore, è ambivalente al punto che ciò che pare una fuga, in verità è un allontanamento. Ma proprio qui sta la questione. L’allontanamento senza strategie, può ridursi ad una fuga, ma l’allontanamento all’insegna della prudenza e della temperanza, non è uno scappare precipitoso ma un cambiare direzione alla ricerca della traiettoria favorevole.

E ora, che tipo di fuga è quella dell’assertivo?

E’ la fuga da una battaglia già persa. Cioè un allontanamento volontario dopo aver valutato i pro e i contro dell’accettazione della sfida.

La fuga dall’abbraccio mortale del prevaricatore

La stessa strategia, qualora per mille motivi prevalesse la scelta di rimanere nell’organizzazione, l’assertivo la adotta quando viene “sfidato” da quello che abbiamo chiamato prevaricatore. Cioè, come abbiamo visto, colui che ritiene di essere positivo ma che non riconosce agli altri tale qualità.

Abbiamo parlato  nel brano precedente, ricorrendo ad una metafora, della strategia della bonifica dai coltelli che consiste nel non farsi “agganciare” in una forma di conflitto sul terreno scelto dal prevaricatore. Ma come si fa a subire le pugnalate senza sentire le ferite? Peraltro rese ancora più profonde e dolorose dal sale cosparso dalle occhiate di approvazione della claque dei remissivi?

Qui sta la vera questione.

In generale, l’assertivo cerca di articolare la sua azione secondo questi principi:

1)-io mi comporto secondo la mia consueta regola aurea: come mi considero positivo, così considero gli altri;

2)-nel caso riceva un messaggio negativo (il classico tu non sei ok secondo la formula della teoria transazionale)  darò una risposta da adulto. Cerco cioè di rimanere sul contenuto della comunicazione e sul merito della questione così da far capire che non intendo rispondere sul livello su cui vengo sfidato;

3)-se non accetto la sfida non è per disprezzo dell’avversario ma per invitarlo ad un altro gioco: quello, come dicono i saggi, che si può vincere insieme, non appena si smetta di essere ossessionati dall’idea di dover battere il partner per non esserne battuti;

4)-nel frattempo sto attento (e curioso) nell’ osservare la reazione dei presenti. Per cogliere le differenze di atteggiamento e cercare tra di essi qualche altro assertivo (ricordate il gioco dell’ Infiltrato?).

Esempi concreti

A me è capitato diverse volte di vedere in azione l’assertivo e il prevaricatore. In particolare mi è accaduto che una volta fossi io stesso ad essere oggetto “delle attenzioni” di un prevaricatore. In questo frangente, però egli non era il capo dell’organizzazione da cui dipendevo.  Si trattava di una persona il cui atteggiamento era talmente consolidato che la mia ferma presa di posizione su l’argomento in questione, provocò in lui  un effetto di spiazzamento tale da rendere meno automatica, e quindi meno “lucida”, la consueta strategia d’aggressione.

L’effetto sorpresa

Tale effetto “sorpresa” indusse il prevaricatore, incredibile ma vero, a presentare le proprie scuse qualche giorno dopo.

Che cosa era accaduto? Si era forse rotto un automatismo e venuto allo scoperto un “gioco” di cui lo stesso prevaricatore era in qualche modo prigioniero? Fu quello uno dei momenti in cui toccai con mano come sia sapiente l’arte dell’etimologia, allorchè ci dice che la parola cattivo deriva dal termine catturato (dal diavolo, si riteneva anticamente). L’opinione comune, invece, è che, in barba al principio dormitivo di batesoniana memoria, non solo si possa essere in assoluto, cioè di per sè, cattivi (o buoni). Ma che il cattivo trovi persino piacere negli atti negativi che compie. Pensare, viceversa, che il cattivo è a sua volta un prigioniero, ci aiuta a comprendere la trappola in cui si dibatte. E che il sadismo non è vero piacere.

Per completezza è utile ricordare che c’è stato chi, dall’alto della sua autorevolezza, parliamo di Socrate, ha suggerito che chi fa il male, lo fa perchè non conosce il bene.

L’obiezione che potrebbe ora muoversi è che nel caso descritto non c’è stata alcuna malvagità che giustifichi il paragone tra il prevaricatore e l’empio. Sennonchè,  noi stiamo parlando della struttura dei rapporti che ben può veicolare una ampia gamma di livelli di prevaricazione a seconda di una pluralità di variabili e delle circostanze. Inoltre, non dobbiamo dimenticare, che Eric Berne usa il termine di carezze per definire le parole. In particolare nella teoria dell’Analisi Transazionale, qualsiasi atto che soddisfa il naturale e innato bisogno di riconoscimento è una carezza. Nella comunicazione, dunque, ferisce anche una mancanza di carezza.

Perciò, se è vero che prevaricare non sempre significa commettere un delitto, è anche vero che si calpesta comunque il diritto ad essere riconosciuti. E questo forse può essere solo il tragico inizio di una spirale di violenza.

La solitudine del manager

Col titolo di questo paragrafo, ispirato a quello di un noir di Manuel Vazquez Montalban, racconto di un’ altra volta, in cui,  fui coinvolto come persona poi informata dei fatti nella vicenda del prevaricatore che agisce nei confronti di un remissivo.

Nel brano precedente abbiamo sottolineato come prevaricatore e remissivo diano vita ad un sottosistema che ricorda la molecola con due elementi a doppia valenza. Entrambi sono d’accordo (o si tratta di collusione?) su entrambi i fronti. Cioè che il prevaricatore è ok, e che il remissivo non è ok. Due affermazioni sulle quali entrambi sono, appunto,  d’accordo e che rende particolarmente salda l’alleanza. Sennonchè, può capitare che il prevaricatore ad un certo possa sentirsi autorizzato, come il gatto col topo, a rincarare il giudizio di base che ha del remissivo, sino al suo annientamento.

In questo episodio va precisato che il prevaricatore era anche il capo.

Capo che strilla, piedi di argilla!

Fu in questo contesto che si verificò il tentativo da parte mia di usare la strategia  che evoca il gioco Creta vivente, oggetto del brano di oggi.

Si trattò cioè di chiedere un incontro vis-a-vis col capo per ribadire le condizioni del proseguo del nostro rapporto di collaborazione, a causa dalla vicenda appena esposta.

Ebbene, nella circostanza, all’inizio vi fu la prevedibile difesa della strategia prevaricatrice con l’argomento (privo di ogni ipotesi controfattuale) secondo cui se si è diventati capi vuol dire che la strategia è quella vincente. Presto, però, di fronte all’evidenza che una strategia prevaricatrice porti a saldare alleanze con chi non crede in se stesso, (effettivamente che valore può avere una conferma espressa da parte di chi non crede in se stesso, rispetto a quella espressa da parte di chi crede di valere?), la resistenza del prevaricatore si indebolì, sino a portare alla luce un rancore profondo dovuto a torti subiti in passato.

Il capo mostrò in quel momento i suoi piedi di argilla. E comprese che il suo gioco era stato scoperto e che la sua strategia aveva alternative. Cosicchè si rivelava solo un alibi, non più accettabile, la  formula “io son fatto così”.

Solo con questo contatto diretto, peraltro, si poteva mettere in atto la regola nonviolenta di dare una via di uscita all’avversario per non fargli perdere la faccia. Questo timore, infatti, che se il redde rationem fosse avvenuto pubblicamente, magari col mio indice alzato e lo sguardo trionfale del giusto, avrebbe probabilmente “costretto” il prevaricatore a gesti estremi , ricacciato nelle vesti del “cattivo”, sino alla mia cacciata per lesa maestà. Tutto ciò proprio per non perdere la faccia.

La strategia parallela

Siamo  però ancora debitori di una risposta alla domanda fatta sopra. Come può l’assertivo reggere all’impatto della scarsa qualità delle carezze dei remissivi e al pugno di ferro del prevaricatore?

Tra le righe qualche suggerimento l’abbiamo iniziato a dare. Da subito, infatti, all’interno del contesto, una prima operazione che l’assertivo può fare è quella dell’individuazione di altri assertivi.

Non è difficile riconoscersi. Il lavoro su se stessi della conquista di sempre maggiori margini di assertività porta ad elaborare una sensibilità particolare e a curare il linguaggio nella consapevolezza della sua formidabile incisività. Tanto che non è difficile scoprire di condividere un codice comune con altri della stessa posizione esistenziale.

Si sarà d’accordo che il lavoro di resistenza nel gruppo cui abbiamo parlato, se fatto insieme ad altri, assume una efficacia assai maggiore. La costituzione del gruppo all’insegna dell’assertività, non solo rende il lavoro di bonifica dai coltelli molto più spedito, ma permette di uscire dalla mera logica resistenziale.

Cioè il gruppo di assertivi si rinforza continuamente ed è in grado di fare persino proseliti.

Ma come la mettiamo se, invece, non si dovesse individuare nessun altro assertivo all’interno di quel contesto?

Nulla è perduto.

L’assertività, infatti, può alimentarsi anche attraverso i contatti con assertivi di altri contesti. Anzi, la differenza di contesti affina le strategie locali  rendendole più versatili e adatte alle diverse situazioni. In ciò non dimentichiamo che un ruolo importante lo può avere la maieutica reciproca di cui abbiamo fatto un accenno in altri brani e che sarà ripresa nel prossimo. Ove inizieremo a parlare di come si potrebbe apprendere l’assertività.

Conclusioni

Non sarà sfuggito come la figura dell’assertivo sembri ricalcare quella di colui che utilizza la strategia vincente nel gioco Dilemma del prigioniero, di cui abbiamo già parlato.

Con una precisazione. La fase della strategia colpo su colpo, che risulta vincente in questo esercizio, non trova corrispondenza con una fase analoga della strategia dell’assertivo.

Questi, infatti, non punisce il prevaricatore  come, invece, fa il cooperante  di fronte alla defezione nel Dilemma del prigioniero . Usa invece la strategia basata sull’ironia. Incassa le provocazioni ristrutturandole e rimanendo sul pezzo, sui contenuti, senza farsi coinvolgere dalle disconferme relazionali. In questo modo è come respingerle al mittente senza che si offenda, dato che è stato lui a lanciarle. E’ il classico richiamo, che dobbiamo a Paul Watzlawick, a che -cosa del tutto inconcepibile per lo scaltro giocatore a somma zero- si può perfino vivere in armonia con l’avversario decisivo, la vita?

Per il resto, le due situazioni, quelle dell’assertivo e  del cooperante possono ritenersi sovrapponibili.

Specie nella funzione assegnata al gruppo di fare da luogo non di semplice rifugio ma ove attuare quei valori che rendono i suoi componenti protagonisti di un altro gioco, come quello della comunicazione, a somma diversa da zero: la costruzione di una casa davvero comune.

Pier Gavino Sechi.