Animali fantastici.

Premessa.

Sempre nel tentativo di diventare più empatici e sensibili, almeno nei gesti immediatamente percepibili, segnaliamo il gioco Animali fantastici con cui intitoliamo il presente brano (vedi sotto).

Si tratta non tanto di immedesimarsi in animali esistenti ma nel creare animali frutto della fantasia. Dunque un pretesto per coinvolgere i giocatori nel processo di presa e coerente attuazione delle decisioni. Cui la variante del gioco stesso aggiunge la capacità di esprimere coralmente il sentimento di valutazione sull’esperienza comune appena vissuta.

Animali fantastici ci suggerisce comunque una tematica ben trattata da Gregory Bateson, per la precisione l’interazione tra cambiamento e tolleranza.  Lo fa assumendo come occasione proprio quella della presentazione di un animale appositamente creato. Sia per celebrare la prosopopea della tecnica manipolatrice, sia per conseguire maggiori profitti.

Si tratta dell’episodio che egli riporta in Mente e Natura, Milano, 1984 nel paragrafo dal titolo La storia del cavallo poliploide, di cui offriamo uno stralcio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ogni scolaretto sa che…

E’ questo il titolo del capitolo del libro di Gregory Bateson di cui fa parte il brano di cui sopra.  Ed è egli stesso nel finale a suggerirci la varietà di impiego della storia narrataci. Si tratta di concetti che se ben presenti davvero ad ogni scolaretto (ma vengono insegnati nelle nostre scuole, e in che modo?) potrebbero guidare la mano di ogni onesto economista ed urbanista. Del primo abbiamo già detto. Egli ha la possibilità di imbattersi nella pratica professionale con variabili dalle “curve discrepanti” come l’aumento della popolazione e la disponibilità di risorse di cui parla Thomas Robert Malthus (curiosamente però trattato più probabilmente in filosofia che in economia, laddove si  studia)

Dal canto suo l’urbanista dovrebbe a sua volta non dimenticare che la crescita della popolazione di una città, ad esempio, ha uno sviluppo assai diverso da quello dei problemi che essa provoca.

Ciò che però ancora più in particolare l’autore suggerisce è il concetto di soglia critica. Essa si manifesta all’improvviso. E quando ciò succede tutto ciò che si fa per correre ai ripari sembra produrre un’accelerazione. Come quando un’auto che  si ritrovi a percorrere un tratto di strada ghiacciato: la frenata non fa che peggiorare la situazione. O ripensando alla tragedia del ponte Morandi a Genova del 14 agosto 2018. Se pure si fosse stati in grado all’improvviso di rendersi conto del crollo imminente, anche un solo mezzo di soccorso che si fosse spinto sino al punto critico ne avrebbe reso più certo l’evento.

La corsa ai ripari

Ma qual’ é la principale ragione per cui si può dire che ogni corsa ai ripari può rivelarsi tardiva e rovinosa? Come a punire la pigrizia di chi pur scorgendo i segnali del pericolo lo ha ignorato sino al manifestarsi del pericolo, ormai ineluttabile?

Cos’è che consente di fare in modo che l’azione che affronti il problema (ancora non manifesto) non ne venga risucchiata accelerandone l’arrivo?

La risposta che Gregory Bateson ci suggerisce fa riferimento, come detto, all’ interazione tra cambiamento e tolleranza.  Ogni cambiamento, cioè, deve aiutare la tolleranza. Posto che potrebbe causare, invece, il fenomeno opposto: la rottura del sistema in cui agiscono i due fenomeni.

Che cos’è che invece rende possibile la “convivenza” tra di essi? La risposta sembra essere la gradualità, che è una qualità del tempo. Un cambiamento troppo rapido potrebbe spezzare la tolleranza. Quando, invece, un cambiamento graduale e quindi tempestivo (ma non nel senso di quella  fortunata serie televisiva della Rai intitolata “All’ultimo minuto”), può allontanare il sistema dalla soglia critica.

Entropia e sezione aurea.

Per cercare di mettere in pratica l’insegnamento batesoniano su ciò che ci interessa da vicino, ossia la debacle ecologica cui stiamo andando incontro, proviamo ad indicare due concetti che potrebbero mettere in pratica i suoi suggerimenti.

Ci sembra utile utilizzare i concetti di entropia e di sezione aurea come base per discutere, partendo da quanto abbiamo detto prima, l’efficacia di soluzioni tecnologiche a prima vista risolutive.

Ebbene il problema non risulterebbe essere il vizio logico di chiamare in soccorso la tecnologia per affrontare i problemi dalla stessa originati. Tale questione, infatti, interessante sul piano puramente logico, dimentica che non abbiamo alternative. L’artificialità del mondo in cui viviamo rende impossibile il ritorno ad una utopica dimensione spazio-temporale chiamata “natura”. L’altro fattore è quello del tempo. Bisognerebbe agire subito, per cui privarsi della tecnologia, peraltro presente in ogni momento della nostra vita, sembra nient’altro che una petizione di principio.

Semmai, le soluzioni tecnologiche che si propagandano come risolutive hanno il difetto proprio di non rispettare quelle regole dell’entropia e dell’armonia (di cui è espressiva la sezione aurea) di cui la scienza ha sempre fatto tesoro.

Tardano infatti ad affacciarsi soluzioni che vadano oltre le applicazioni limitate a determinati settori. Soluzioni a tutto campo, le uniche che possano rispettare la regola dell’armonia e dunque recepire il monito batesoniano.

L’approccio dell’un problema per volta

A riprova di ciò e per stroncare ogni facile illusione, basti leggere le difficoltà che sta incontrando uno dei tanti progetti “faraonici” destinati ad affrontare i problemi secondo l’approccio “dell’uno per volta”.

Ci riferiamo all’idea di mitigare il surriscaldamento globale a respingendo i raggi del sole attraverso il rilascio in atmosfera di particolari sostanze riflettenti.

Come si vede, come nell’apologo del cavallo poliploide,  piuttosto che andare alla radice del problema, si cerca di ridurne l’impatto con soluzioni che potrebbero a loro volta generare altri problemi a catena. Tutti casi in cui la soluzione diventa, appunto, il problema e non vale il proverbio “chiodo scaccia chiodo”

Ma se la soluzione, per quanto proposta da Bill Gates, può essere tacciata con una certa facilità di riduzionismo, proviamo ad esaminarne un’altra che appare più “sensata” ed ovvia. Come quella di procedere alla piantumazione del numero maggiore possibile di alberi. Del resto in tali tipi di iniziativa si sarebbe distinta la stessa sindaca di Parigi, probabile candidata alle prossime elezioni alla Presidenza della Repubblica francese.

Ebbene, dopo gli entusiasmi iniziali, anche un progetto del genere è stato ritenuto non risolutivo.

Ad iniziare dal fattore “lavoro”. In altri termini quanta energia e dunque conseguente inquinamento occorrerebbe per piantare un numero di alberi che si annuncia pari a mille miliardi entro il 2030? Senza contare che bisogna considerare anche l’impatto delle attività di manutenzione di tale patrimonio forestale.

Anche in questo caso appare chiaro il tentativo precipitoso di correre ai ripari. Si vorrebbe recuperare secoli di deforestazione con un mastodontico piano, costruito a tavolino, di inserimento nell’ecosistema di nuovi esseri viventi che a loro volta impattano. almeno in una prima fase, sul clima.

Ecco perché si è parlato di una sorta di scorciatoia se non di vera e propria illusione. Solo per alcuni esempi di problemi causati da simili iniziative, a loro volta “monocolturali” come le cause dei problemi cui cercano di dare risposta, vedi Piantare alberi non ci salverà, creare ecosistemi (forse) sì (radarmagazine.net)

Il sentiero stretto della filentropia

Siamo costretti al neologismo filentropia pensando ai milionari della Silicon Valley che pensano di saldare il conto dei danni prodotti dal modello economico che li ha resi tali, ricorrendo alla filantropia di secondo livello. Ossia quella che si affianca alle tradizionali  cospicue donazioni di cui sono elargitori (filantropia di primo livello) con iniziative ciclopiche per salvare il pianeta.

La filentropia, invece, più modestamente, costituisce il richiamo  a replicare a livello globale  la circospezione prima dell’azione di cui abbiamo parlato in un altro brano. Riferendosi all’entropia come concetto che prende in considerazione l’aumento di disordine che potrebbe causare ciò che vogliamo intraprendere.

Invita così a vedere ogni azione in un’ ottica di costo-opportunità. Nel senso che dedicare energie in una direzione significa privarsene per altre, a parte occuparsi poi della gestione degli effetti. Che, come abbiamo visto, possono generare altri problemi. Prima di agire, dunque, bisogna non escludere la possibilità che sia meglio non agire. Condizione che in assoluto peraltro non si verifica in quanto anche quando non agiamo tutto ciò che ci circonda comunque si modifica: dunque per non azione intendiamo il limitarci ad una sorta di “ordinaria amministrazione” o di semplice adattamento a tali cambiamenti.

Se poi si decide di agire e sorgono problemi occorre cercare di “chiudere il rubinetto”. In altri termini, andare alla radice delle loro cause e cercare di rimuoverle.

Naturalmente a patto che le scelte intraprese non siano irreversibili.

L’irreversibilità delle scelte, infatti, è il vero vincolo che questa generazione può finire di imporre alle future generazioni.

Credo che questo sia il vero problema,  e certo non l’unico, della ventilata ripresa dell’ottimismo in Italia per la cosiddetta energia nucleare a scopi civili.

Pier Gavino Sechi.