Il rasoio di Occam

Premessa.

Un altro racconto usato spesso durante i training si intitola Gita di mezzanotte (vedi sotto) tratto dal libro di Nyogen Senzaki, 101 storie Zen, Milano, 1973.  Continuiamo, così, a revocare elementi di tale esperienza importanti quanto gli esercizi e i giochi sinora descritti. In particolare, la lettura di oggi  si pone a metà strada tra la tematica dell’assertività e quella del potere e del suo esercizio secondo il principio della parsimonia ben  espresso dalla metafora del rasoio di Occam

Potere e dominio

Il termine potere, invero, spesso viene accolto con una certa freddezza. Tale reazione pare però condizionata dall’errore logico di identificare il potere col dominio. Cioè con una sua forma ben  determinata. Quella, cioè, in cui il primo viene esercitato per soggiogare gli altri. Tuttavia il potere in astratto identifica il modo in cui ciascuno usa i mezzi di cui dispone per ottenere i propri obiettivi. Certo, se questi ultimi fossero dannosi, difficilmente potrebbero essere considerati positivi. Invece, come sappiamo, quando tendono a obiettivi giusti, si contendono il campo due posizioni. Quella per cui i fini giustificano i mezzi, e quella nonviolenta, ad esempio, che, al contrario, sostiene che il giudizio negativo degli obiettivi si trasmetta anche ai mezzi. E ciò, come sappiamo, in quanto per tale dottrina i mezzi  devono essere omogenei ai fini.

Potere monolitico e potere non monolitico

Un approccio molto interessante al tema del potere è quello di Gene Sharp, in Politica dell’azione nonviolenta, Torino, 1994-96. Il quale distingue tra una concezione monolitica e una concezione non monolitica del potere.

La prima si basa sull’idea che il potere sia qualcosa di concreto e materiale. Anche in questo caso con una indebita coincidenza tra esso e l’oggetto su cui si esercita.  La storia è colma di esempi in cui si parla di “presa del potere” al culmine di rivoluzioni o di colpi di stato. Vicende solo apparentemente  diverse.  In quanto, a ben vedere, sono accomunate dai mezzi impiegati, le armi . Con la conseguenza che una volta preso il potere, chi lo esercita si trova daccapo nella necessità di difenderlo.  Senza avere la possibilità (ma assai più spesso la volontà) di deporre le armi. Trovandosi in un  vicolo cieco che segna il definitivo abbandono dei principi per cui aveva assunto l’iniziativa.  Fenomeno di cui siamo vittima spesso  anche a livello personale (mai separare i diversi livelli di realtà) e che prende il nome di rinvio dei fini.

La storia come campionario di strategie

La storia  potrebbe perciò essere interpretata anche diversamente. Cioè che bisogna scegliere con cura i mezzi con cui operare i cambiamenti,  a ciò soccorre il rasoio di Occam, e dunque quelli con cui esercitare il potere. Altrimenti quelli adoperati potrebbero con la loro invasività  ipotecare il cambiamento. Ad esempio, producendo, secondo l’insegnamento ancora una volta di Paul Watzlawick , John H. Weakland , Richard Fisch  in Change, la formazione e la soluzione dei problemi, Roma, 1978,  un cambiamento solo di tipo1  anzichè di tipo2, senza contare che c’è  qualche autore che ritiene che siano ipotizzabili cambiamenti  persino di tipo 3 (ma avremo modo di parlarne).

Errori logici e il ritorno del principio dormitivo

Tutti questi elementi e soprattutto il fatto di non valorizzare appieno gli insegnamenti della storia, induce il pensiero corrente ad indentificare il potere con  un simbolo (la Bastiglia, il Palacio de La Moneda, etc.). O comunque  a ritenerlo concentrabile in un luogo come nelle mani di una o più persone. Andando così incontro ad un doppio abbaglio. Il primo è quello  che in logica prende il nome di metonimia: si confonde il potere con un suo simbolo. L’altro è invece costituito dal già noto principio dormitivo teorizzato, come abbiamo visto in altri brani, da Gregory Bateson.  Che consiste nel ritenere che esso sia nelle persone. Come se pensassimo, come diceva Bateson, che sia l’oppio a provocare il sonno. Avevamo già detto che un modo per sfuggire a tale trappola consiste nell’approccio relazionale: un effetto è provocato dal rapporto tra un fattore e  le molteplici concause con cui interagisce. Come per il caffè che per alcuni ha un effetto eccitante e per altri soporifero.  Si tratta di un’impostazione che in fondo Gene Sharp ci suggerisce di usare anche per l’analisi del potere.

Il potere di tutti

In questa chiave, perciò, tutti abbiamo potere. Anche se non tutti ne hanno consapevolezza, oppure non tutti lo sanno usare, finendo per acconsentire implicitamente che siano altri a detenerlo. Cosicchè, faceva osservare Gene Sharp, non esisterebbe alcun sanguinario dittatore se non ci fosse un numero sufficientemente elevato di persone che hanno deciso di sostenerlo rinunciando al loro potere. Del resto non dimentichiamoci che la stessa teoria del contratto sociale muove dallo stesso presupposto.

Dunque, tra le forme di delega del proprio potere ad altri, vanno ricomprese anche quelle indirette.  Oltre a quelle più evidenti di sostegno aperto se non di diretta corresponsabilità. In altri brani abbiamo cercato di descrivere il lento processo con cui si realizza la rinuncia del proprio potere in favore di altri. Ha un andamento osmotico. Goccia dopo goccia si svuota la sfera di controllo di alcuni e si incrementa quella di chi arriva a monopolizzarlo.

Peraltro, il fenomeno, come non non richiede consapevolezza, nemmeno implica il coinvolgimento di persone in carne ed ossa. Dato che può realizzarsi tra ambiti sociali e, persino, come sostiene Umberto Galimberti, tra la politica e l’economia e tra questa e la scienza e, infine, tra questa e la tecnica.

Gli agi della rinuncia al potere

Per chi ritiene che se non irreversibile, tale fenomeno possa essere in ogni momento arrestato, va osservato che come la strada che si apre crea i suoi argini, così mano mano che si rinuncia, aumentano gli agi della deresponsabilizzazione. E ben presto si diventa più allenati nel rimuovere e nel sopportare che nell’assumersi la responsabilità di andare controcorrente. Il fenomeno dei campi di concentramento che tutti conoscevano ma pochi contrastavano, come sappiamo si può spiegare in questo modo.

Del resto, supponiamo pure che si assuma consapevolezza del potere che abbiamo nelle nostre mani. Come gestirlo e chi ci insegna a farlo?

Possiamo fare gli autodidatti? Ma, anche in questo caso, quanti riuscirebbero a rimanere fermi nel proposito di continuare dopo le sconfitte? In un altro brano abbiamo ricordato la fine riservata nel mito della caverna di Platone a chi cerca di indicare ai suoi simili che si può vivere e meglio al  di fuori.

Quale maestro?

Torneremo a suo tempo su questi interrogativi, constatando come sarà importante in quella prospettiva il rasoio di Occam o principio della parsimonia. Per ora ci interessava fare un collegamento tra il tema dell’assertività e quello del potere per porre in parallelo la strategia di azione dell’assertivo e le modalità di gestione del potere. Di tipo non monolitico se pensiamo a come affronta il prevaricatore e a come cerca di aprirlo alla consapevolezza della scelta dei mezzi.  Nel brano in cui abbiamo parlato di tali aspetti abbiamo solo accennato al perchè il prevaricatore dovrebbe abbandonare le proprie care strategie che, in mancanza di prova controfattuale, lo premiano.

Ma soprattutto va sottolineato un altro punto, forse ancora più decisivo, di cui parleremo a proposito di come si inizia il percorso dell’assertività (niente di psicoterapeutico come vedremo). Si tratta di questo. Spesso anche di fronte all’evidenza non è facile ammettere di essersi sbagliati. Ma è ancora più difficile farlo quando scopriamo di avere torto grazie all’opera di un’altra persona. Solo il vero (già) assertivo potrebbe farlo. Ma assai più difficilmente un prevaricatore, come dire, di razza.

Si tratta di un problema opposto a quello che ha il maestro che voglia rendere autonomo l’allievo, sino alle soluzioni più drastiche come quella narrata nel romanzo di Herman Hesse,  Il gioco delle perle di vetro, Milano 2018.

La gita di mezzanotte

Il caso descritto in Gita di mezzanotte, si propone come complementare rispetto agli episodi evocati nel brano precedente.

Difatti in questa vicenda l’assertivo è colui che detiene maggiore potere rispetto all’allievo.

La lettura ci sembra utile per attirare l’attenzione su alcuni spunti di riflessione. Al netto che si tratti di una storia  e non necessariamente del racconto di un fatto realmente accaduto (ma quante vicende reali non hanno lasciato testimonianze scritte?) il risultato positivo dell’insegnamento del maestro sembra venga ottenuto senza l’esercizio del potere. Ma ne siamo proprio sicuri? E l’atteggiamento del maestro è improntato alla clemenza?

Educazione e strutture educative

In realtà il racconto ripropone l’annosa questione del rapporto tra l’educazione e l’organizzazione in cui essa viene impartita. Se non ci fosse la prima istanza, quella educativa, potremmo persino sostenere che il maestro abbia persino il dovere di far espellere l’allievo. Ma se pure si sostenesse la prevalenza dell’educazione, egli si è dovuto guardare da un’insidia non meno temibile. Cioè il cosiddetto senso di  giustizia (che come dicono Mario Jori  e Anna Pintore in  Introduzione alla filosofia del diritto, Torino, 2014 è la più giuridica delle virtù) che vorrebbe l’allievo oggetto di espulsione per non creare una disparità di trattamento rispetto agli altri allievi. Difatti questi,  avendo obbedito alle regole di non andare a divertirsi la sera, verrebbero automaticamente trattati peggio rispetto a chi viola la regola e non viene punito. Come dire due situazioni diverse vengono trattate allo steso modo. Un esempio di come si squarcia il velo del conflitto tra  le ragioni organizzative e quelle educative è il celebre monologo di Al Pacino in Profumo di donna,

Per quanto difficile, bisogna ammettere che l’educazione, infatti, si basa su regole assai differenti rispetto a quelle menzionate sopra. Regole che ricordano il funzionamento della comunicazione. Se voglio realmente comunicare, infatti, devo tenere conto delle caratteristiche del mio interlocutore parlare in un certo modo e persino ripetere più volte il concetto etc. Allo stesso modo, se voglio influenzare il comportamento di una persona, per indirizzarlo ad obiettivi per sè desiderabili, devo tener conto dei suoi desideri.

I vincoli organizzativi in educazione

Questo spiega quanto sia difficile educare un gruppo di allievi. Specie se non hanno compreso che pur all’interno dell’unico loro gruppo, ciascuno ha caratteristiche diverse. E dunque ciascuno richiede sollecitazioni proprie e non standard. Di questo, sembra paradossale, sembra sia consapevoli il giudici quando ascrivono all’educazione l’elemento del rischio.  L’educatore, cioè, ad un certo punto deve sottoporre a prove di autonomia, certo protette e non senza rete, il proprio allievo. E tale rischio ammette la possibilità di errori che se in serti in un ben impostato piano educativo, non vanno addossati all’educatore. Senza quelle prove d autonomia non sapremo mai il grado di maturazione raggiunta dall’allievo. Ecco il motivo per cui l’educazione dovrebbe essere considerata maggiormente come fondamentale per la stessa tenuta sociale. Una cittadinanza incapace di autonomia è il primo presupposto del pensiero unico e delle forme piò o meno mascherate di dittatura.

Conclusioni.

La realizzazione dei propri obiettivi richiede una scelta, spesso non consapevole, di mezzi. I quali non sono neutri ma determinano la qualità degli obiettivi. Da questo punto di vista la dottrina dell’omogeneità tra mezzi e fini attribuita a Gandhi contiene un’intuizione che anticipa l’attuale condizione della preponderanza dei mezzi offerti dalla tecnologia. Intesa, per brevità, come arte di creazione degli strumenti di azione.

Ecco che allora la metafora del rasoio di Occam ci può aiutare a valorizzare, nella gamma delle scelte possibili, quelle più semplici, meno invasive e quindi più adatte all’obiettivo da raggiungere. E ciò, nella prospettiva della gestione del potere inteso come scelta delle strategie per realizzare i nostri obiettivi, ci permette di attrezzarci meglio nel coinvolgere gli altri specie quando si tratta di conseguire risultati o beni relazionali. Beni, cioè, che non possono prescindere dall’adesione piena della volontà degli altri.

Pier Gavino Sechi.