Tutti forse abbiamo presente l’episodio di Tom Sawyer (in Mark Twain, Tom Sawyer e Huchleberry Finn, Torino, 1963) il quale, costretto un sabato pomeriggio a dipingere la staccionata del giardino della casa della zia, riesce non solo a non farsi sopraffare dalle prese in giro degli amici, ma persino a farsi pagare per far provare anche ad essi il “piacere” di avere da dipingere una bella staccionata, anziché andare a pescare al fiume!
E forse tutti ricordiamo anche la vicenda narrata da Edward de Bono all’inizio del suo libro Il pensiero laterale, Milano 2010, ove si narra di una ragazza che riesce a non farsi prendere in trappola da un vecchio mercante che la vuole avere a tutti i costi in sposa.
Che cosa hanno in comune questi due raccontii tanto diversi tra loro?
Sono bellissimi esempi di capacità di ristrutturazione. Cioè di quella capacità di individuare le vie di uscita da una situazione, apparentemente compromessa, specie quando non è possibile “scappare” (appunto per il compito imposto dagli adulti e il ricatto del vecchio mercante…)
Una delle competenze più importanti che ci viene richiesta, anche in questo periodo, per sostenere il peso dei repentini cambiamenti delle nostre abitudini ed essere pronti al ritorno ad un presente che ha il sapore del day after, dal titolo dello storico film dell’83 di Nicholas Meyer, è senza dubbio la creatività. Di cui la capacità di ristrutturazione può considerarsi, a sua volta, un aspetto assai concreto.
Ma si può imparare la creatività? La si può insegnare? Le domande ci sembrano appropriate dal momento che troppo spesso sentiamo attribuire la creatività ad una specie di caratteristica individuale innata: per cui o si nasce creativi oppure difficilmente si riuscirà ad esprimere la fantasia necessaria per affrontare con efficacia i problemi che possono capitarci.
Nei precedenti scritti dedicati al brainstorming, abbiamo cominciato a rispondere alle due precedenti domande in modo indiretto ma non per questo elusivo. Abbiamo indicato, infatti, in quello strumento un modo per farci “contaminare” da ciò che altri esprimono, assumendo un particolare atteggiamento: l’attenzione –l’ascolto attivo– per ciò che viene detto e per l’effetto che ciò produce in noi, in termini di nuove idee che ci vengono suggerite.
Questa disponibilità ad arricchirci ascoltando gli altri, una volta che con l’esercizio diventa sempre più naturale, ci mette di fronte ad una prima forma di creatività. Infatti notiamo che i collegamenti tra le parole che sentiamo e le idee che esse ci suggeriscono non sono identiche a quelle vengono in mente agli altri. In questa differenza risiede il nostro contributo e quella che possiamo chiamare la nostra originalità. Non a caso uno degli insegnamenti più importanti di un autore poliedrico come Gregory Bateson sta proprio in questo, ossia che dalla differenza nasce la conoscenza…. Noi ci permettiamo di aggiungere, parafrasando, che l’unica conoscenza è, dunque, quella condivisa con gli altri.
Avuta la prova, se non ancora del tutto acquisita la fiducia, sulla nostra creatività, siamo pronti a declinarla in termini di capacità di ristrutturazione, concetto molto presente nel nostro patrimonio.
La pratica ristrutturante consente di concentrarsi non tanto su un oggetto in sé, quanto sul “come” lo vediamo, con la conseguenza che qualsiasi cosa può darsi che sia diversa da come ci appare. In un certo senso si allenta la fretta di giudicare ciò che ci appare, impulso che in generale estendiamo alle persone, alle loro idee e persino a noi stessi. In effetti la conseguenza dell’allenamento alla ristrutturazione sta in questo cambio di prospettiva, del modo di vedere le cose, che diventa relazionale e processuale. Non c’è dubbio, infatti, che è ben diverso dire quell’oggetto è così, rispetto a dire quell’oggetto mi appare così. Per poi, quando si tratta delle relazioni con gli altri, imparare a distinguere tra ciò che l’altro fa e ciò che quell’atto provoca in noi.
Ricordo sempre l’inflessibile rigore con cui Alberto l’Abate esigeva che si distinguesse tra ciò che il nostro interlocutore ci dice e ciò che ciò provoca in noi, per giungere a comprendere la più generale regola della tradizione nonviolenta per cui bisogna non confondere l’atto con chi lo compie.
Particolarmente importante è in ogni caso applicare prima di tutto a se stessi la pratica della ristrutturazione. Sia perché, per coerenza, dobbiamo essere come il buon medico, che sperimenta su di sé l’efficacia del medicinale prima di somministralo agli altri, sia perché l’esercizio attuato su di noi è come disporre di una palestra h 24, sia, infine, perché di noi dobbiamo imparare ad accettare anche ciò che crediamo inaccettabile, magari per abitudine o su pressione del contesto in cui viviamo: i nostri lati negativi e i cosiddetti nostri difetti.
Per imparare che c’è sempre del positivo nel negativo ma pure del negativo nel positivo secondo anche un altro concetto dell’ambivalenza, altrettanto forte nel nostro patrimonio, ci sembra molto utile un esercizio, tratto dal testo Reti di formazione alla nonviolenza, Torino 1999, dal titolo Dott. Jekill e Mr Hyde, che riproduciamo al termine.
Molto interessante è a proposito delle qualità assegnate alle cose e alle persone, quello che Gregory Bateson chiamava principio “dormitivo” per indicare la tendenza a considerare gli effetti di un determinato elemento come una sua qualità intrinseca, quando invece, con ogni probabilità, essa potrebbe essere frutto della relazione tra quella determinata cosa e chi la subisce.
L’esperienza del virus che ha provocato i gravissimi problemi di questo periodo, ad esempio, può essere letta anche sotto questa luce, se è vero che il medesimo agente patogeno produce effetti assai diversi a seconda delle molteplici caratteristiche degli individui esposti, come dimostra il caso delle persone positive ma asintomatiche, sino all’estremo di quelle sulle quali non ha prodotto alcun effetto.
Sennonché di questi tempi sentiamo ripetere spesso che della crisi bisogna imparare a cogliere gli aspetti positivi.
Tutto vero ed interessante, salvo accorgerci che senza una proposta operativa e senza allenamento è più facile che la crisi, invece, induca in ciascuno di noi quelle difese automatiche di cui ignoriamo le modalità di gestione…..Tanto più che la crisi da emergenza sanitaria che stiamo vivendo sembra perfetta dal punto di vista della messa in discussione delle stesse basi della convivenza…neppure il più perfido degli scienziati, infatti, avrebbe potuto escogitare un fattore così psicologicamente devastante come il Covid-19… se solo pensiamo che le persone più pericolose potrebbero essere non sono tanto gli “untori” di manzoniana memoria, ma ciascuno di noi, ignari, appunto, della nostra eventuale positività asintomatica.
Ecco perché al virus biologico si è accompagnato il virus della diffidenza che delle tradizionali dimensioni della nostra vita, il personale, il sociale e l’ecologico, ha sconvolto soprattutto il secondo. Con l’effetto di riportare al centro della scena la sfera individuale (già ipertrofica da anni di social network) cui lanciare la sfida della nostra capacità di ristrutturazione. Dalla dimensione ecologica, invece, come mostrava un’efficace pubblicità progresso di qualche tempo fa, si sono levati, in favore di noi umani, applausi di gratitudine per aver risparmiato boschi e campagne dal furore delle nostre “strane” pratiche della gita fuori porta. Ciò naturalmente sino a che di tale e simili “sacrifici”, non tarderemmo a “rifarci”, presi dall’entusiasmo dello scampato pericolo… individuale…
A meno che non avremmo imparato la sottile arte della ristrutturazione (come la chiama Paul Watzlawick in Change, Roma 1974) per combattere quei difetti con cui lo stesso autore, in Istruzioni per rendersi infelici, Milano 1993, dipinge grottescamente la specie umana.
Ritornando dunque alla nostra cassetta degli attrezzi di cui fare la manutenzione in vista della ridiscesa su un pianeta terra e del ritorno ad un presente che non saranno quelli che abbiamo lasciato qualche mese fa, la ristrutturazione va esercitata in quanto è tra le competenze più importanti in chiave di problem solving.
E’ questa la ragione per cui, una volta che ci siamo allenati al gioco che abbiamo proposto, consigliamo di passare ad una ideale seconda fase caratterizzata dalla lettura di un testo dal titolo Imparare l’ottimismo di Martin Saligman, Milano 2010.
Sicuramente ci sarà stato chi avrà storto il naso davanti ad un titolo tanto americaneggiante. Va detto però che il testo è molto lontano dall’approccio “sanitarizzante” che spesso caratterizza lo stereotipo dell’americano medio sempre pronto a correre dallo specialista per fronteggiare le proprie nevrosi…(tipo i personaggi di Woody Allen, per intenderci…).
Dopo una prefazione che mette in parallelo l’ottimismo con la nostra capacità di resilienza e, persino, con la salute del nostro sistema immunitario, la prima parte esordisce con un test per la misurazione del nostro livello iniziale di ottimismo, per essere quindi indirizzati a questa o a quella parte del libro in funzione del punteggio ottenuto.
In breve, la sostanza del volume è costituita dall’imparare a ristrutturare le situazioni che quotidianamente ci mettono in scacco, scardinando la nostra abitudine a bloccarci su una eventuale modalità di interpretazione pessimistica, per giungere ad analizzare gli avvenimenti da diversi punti di vista alla ricerca del modo più costruttivo per affrontarli.
In altre parole, il libro ci insegna a passare da un dialogo interiore focalizzato su cause degli avvenimenti estrinseche, ossia che dipendono da variabili sulle quali non possiamo esercitare alcun controllo (vado male in geografia perché la maestra mi ha preso di mira…), a variabili intrinseche molto più adatte a mobilitare le nostre energie per affrontare con efficacia il problema (devo cambiare metodo di studio, quello che uso non mi porta risultati soddisfacenti…).
Va a questo punto sottolineato un aspetto molto importante. Questo allenamento a cambiare ciò che in psicologia viene chiamato processo di attribuzione, può essere condotto sia in solitaria (magari quando saremmo diventati più esperti…) sia grazie alla collaborazione di una persona fidata, un amico, un genitore, un insegnante, un educatore, col quale stringere un patto (se invece appartenete ad una di queste categorie sarete voi ad offrire la vostra collaborazione….): deve contribuire alla nostra ricerca delle cause di ciò che ci capita, con elementi utili a farci fare quella circumnavigazione del problema di cui abbiamo parlato (il brainstorming può allora di nuovo tornare utile). Ciò senza che ci risparmi, che sia tenero con noi, perché risparmiarci non sarebbe una grande prova di amicizia ne’ di fiducia nelle nostre forze…
Si tratta di una pratica molto vicina alla celeberrima pratica socratica della maieutica, ma, nel nostro caso, declinata nella sua forma della maieutica reciproca di cui siamo debitori a quella particolarissima figura di intellettuale e di attivista della nonviolenza che è stato Danilo Dolci, sempre molto disponibile ad incontri e seminari in Sardegna quantomeno sino a tutti gli anni 80.
In definitiva la persona che avremmo scelto e con la quale avremmo stretto il patto di cui sopra, deve farci, per usare anche in questo caso una metafora sportiva, da sparring partner…: come l’allenatore di un pugile deve metterci duramente alla prova e, perché no? anche mandarci al tappeto… se occorre. Tanto, si tratta di un “semplice” allenamento, rispetto alle vere sfide che ci attendono giù dal ring….