La tazza di tè

Premessa

Il titolo del brano di oggi si rifà a quello di un celebre racconto zen che riportiamo qui sotto. Lo traiamo dall’inizio della parte C del testo Percorsi di formazione alla nonviolenza, Torino 1992.  Dedicata proprio a strumenti e giochi del nostro patrimonio che stiamo rievocando in questi mesi di emergenza sanitaria. Come proposte di attrezzi per affrontare in modo più consapevole e culturalmente “sano” la realtà. Con questo contributo vogliamo, però , cominciare a valorizzare non più solo i giochi del nostro patrimonio. Ma pure un altro elemento dal ruolo fondamentale nei training alla nonviolenza. Vale a dire, appunto, le letture di cui ci siamo sempre serviti per meglio focalizzare l’attenzione sui temi  trattati.
E noi ora vorremmo fare altrettanto, giacché La tazza di tè ci sembra molto utile per proseguire gli articoli precedenti.

Assertivi e prevaricatori a confronto

E in particolar modo per approfondire l’analisi del rapporto tra le due posizioni esistenziali dell’ assertivo e del prevaricatore.
Li avevamo lasciati, ricorderete, al termine di un serrato confronto mettendoci nei panni di chi ne avesse scovato il luogo di incontro, come capitò nell’episodio che diede vita al Tgroup di Kurt Lewin. Momento di cui parlano anche Renzo Carli e Rosa Maria Paniccia in Psicologia della formazione, Bologna 1999.
Ebbene, chi dei due, secondo voi, impersonerebbe il ruolo del maestro Zen e del docente universitario desideroso di intervistarlo per capire che cosa sia lo Zen?
Pensate che il prevaricatore sia il maestro zen solo perché il docente universitario gli ha chiesto l’incontro, come fa l’assertivo col prevaricatore nel brano della settimana scorsa? Oppure ritenete che un maestro zen sia assertivo per “vocazione”? E dunque per esclusione il prevaricatore non possa che essere il docente universitario?
Potrebbe persino esserci chi ritiene che siano entrambi assertivi. Il che non è escluso poiché più sotto vedremo che c’è da considerare anche il come si viene percepiti. Non riteniamo a priori, infatti, che l’atteggiamento del docente universitario sia da prevaricatore. Tuttavia il suo tentativo di “interrogare” il maestro per dare una definizione allo Zen, può  suggerire che lo sia.

Assertivi si nasce o si diventa?

Vanno comunque tenuti presenti due importanti aspetti.
Il primo concerne la domanda se sia necessario il confronto con gli altri per stabilire di appartenere a questa o a quella delle diverse posizioni esistenziali.
Il secondo, che ne costituisce un corollario, è se vi siano diversi gradi di assertività.
A nostro avviso ad entrambi gli interrogativi andrebbe data una risposta affermativa.
Precisando, però, quanto segue.
Essendo assai improbabile che, per così dire, si nasca assertivi, tale posizione esistenziale si può in ogni caso raggiungere attraverso un percorso di crescita e maturazione, in cui ci si confronta soprattutto con se stessi.
Ciò apparirà più chiaro quando parleremo di quello che Martin E. P. Seligman chiama dialogo interiore.
Una volta attivato questo processo di maturazione, il confronto con gli altri non serve più per capire, come all’inizio, la posizione esistenziale di partenza, ma come banco di prova per sondare i progressi.

Il problem solving: come promuovere il cambiamento

Per tornare alla scena del rito del tè, noi riteniamo perciò che sia proprio il maestro zen a meglio rappresentare l’assertività. Non tanto per la saggezza che dovrebbe caratterizzarne la figura. Quanto  perché si trova di fronte ad un “compito” assai simile a quello dell’ assertivo che, come raccontato la settimana scorsa, deve “influenzare” il prevaricatore.
Entrambi hanno di fronte due persone con una forte resistenza al cambiamento. Specie davanti al tentativo verbale cui avrebbe potuto ricorrere il maestro nel caso del docente universitario o alla forte critica rivolgibile dall’assertivo al prevaricatore capo azienda.
A ben vedere, entrambi gli assertivi delle due situazioni a confronto, sono alle prese con un vero e proprio esercizio di problem solving. La cui struttura richiama il celebre esercizio dei nove punti (vedi sotto). Per un certo tempo presente persino nei libri di matematica del primo ciclo dell’istruzione (alle elementari, in particolare, per usare la vecchia dicitura).

La strategia gentile

Parleremo in futuro di quali siano le strategie con cui possiamo indurre le persone a tenere comportamenti a noi confacenti (ben inteso, non necessariamente per loro dannosi). Mentre qui possiamo anticipare che nelle due situazioni parallele che stiamo esaminando nessuna strategia d’urto è destinata a funzionare. Ciò per le seguenti principali ragioni, riferibili soprattutto all’episodio che abbiamo cominciato a descrivere la settimana scorsa:

1)-il prevaricatore usa investire di un giudizio negativo gli altri in generale, e dunque, anche l’assertivo;

2)-il prevaricatore, specie se svolge una funzione superiore nel contesto in cui si svolgono i fatti, perchè dovrebbe dare udienza all’assertivo?

3)-e nel caso perchè egli dovrebbe cambiare atteggiamento nei confronti della realtà in cui dimostra di essere vincente?

4)-un confronto troppo incentrato sulla strategia rischia di farlo chiudere a riccio. Il prevaricatore, difatti, sa vincere (a modo suo) ma non è detto che sappia perdere o ammettere  di aver sbagliato.

Lo spiazzamento

Dati tutti questi presupposti, come riuscire, come nell’esercizio dei nove punti, ad individuare la strategia più efficace?

Serve una strategie di spiazzamento

Il maestro zen usa a tale scopo la tazza del tè. L’assertivo della nostra storia, lo abbiamo detto, usa, invece, alcuni argomenti di passaggio dall’efficacia all’efficienza. In entrambi i casi, ma soprattutto nel secondo, si tocca la tematica del potere.

La tazza di tè come metafora

Analizziamo per prima la strategia del maestro zen. Egli ottiene l’effetto spiazzamento andando oltre la semplice metafora che avrebbe potuto esprimere verbalmente. Più esattamente compie il gesto di far traboccare la tazza e poi, su richiesta, lo spiega. Ottenendo l’effetto di andare oltre la funzione performativa della parola.

Si tratta di un tipo di approccio cui si ispira il training stesso, allorchè spiega i concetti ricorrendo all’uso del gioco. Il risultato sul piano dell’apprendimento ne risulta così amplificato in quanto si impara facendo. E in questo modo il concetto da apprendere non risulta solo chiaro in quanto comprensibile ma diventa comprensibile in quanto viene agito. Con un conseguente effetto modificativo.

Usando la tazza di tè come “simbolo” di ciò che accade normalmente (ciò che è già pieno, non può contenere altro) il maestro muove al suo interlocutore una critica garbata e non rifiutabile in quanto riferita ad un fenomeno naturale.

La tazza di tè e la vita

Tale incorniciamento della dinamica in un quadro più ampio è ciò che assimila la strategia del maestro Zen con quella dell’assertivo che parla col capo.

Infatti, se il maestro usa la natura, l’assertivo della nostra storia usa la vita.

Vediamo in che modo.

Porta alle spalle, navi incendiate?

Prima che l’assertivo chiuda dietro di se la porta dell’ufficio del capo, per dare inizio al colloquio richiesto, avrà pensato chissà quanto a questo momento. E avrà persino ricordato che nell’antichità i comandanti per impedire all’esercito di contare sulla fuga come ultima via di scampo facevano bruciare le navi.  Ma egli non teme il capo. Quel momento rappresenta, invece, una verifica del suo percorso di assertivo.

Ma qual’è la strategia che ha in mente? Proviamo a fissarne i punti fondamentali:

1)-deve subito dimostrare l’utilità dell’incontro: il tempo è prezioso e non deve far perdere tempo a nessuno.

2)-deve essere abile a elencare le ragioni per cui ha chiesto l’appuntamento;

3)-deve saper presentare i problemi causati dalla strategia prevaricatrice del capo;

4)-deve agganciarsi al tema della vita non in modo retorico. Ma richiamando la propria esperienza di come altrove si è affrontata l’esigenza di dirigere un’impresa trasformando gli errori in occasioni per chiarirne la mission

5)-deve alludere, eventualmente, alla possibilità di occuparsi dell’osservazione e cura di tali dinamiche all’interno dell’impresa.

Indicare la vita, non leggere la vita

Come si vede, questo momento potrebbe rappresentare un esempio di come unire gli elementi culturali (come comunichiamo e l’attenzione non giudicante per chi abbiamo di fronte) a quelli operativi. Cioè agli strumenti che mettiamo in campo per proporre una collaborazione per il miglioramento.

Implicitamente si fa un richiamo, difatti, a strategie di conduzione delle relazioni che passino, come abbiamo detto, dall’efficacia all’efficienza. Cioè dal risultato alla considerazione anche dei costi, anche umani, richiesti dal risultato.

Ma in nome di che  cosa l’assertivo si impegna in una operazione così ad alto rischio?

Ricordate la metafora della bonifica dai coltelli? Ecco si tratta di questo. Garantire la vivibilità di un contesto per sè significa doverla garantire anche per gli altri. Si tratta di  conseguire un bene relazionale, frutto di un gioco a somma diversa da zero. Dunque l’assertivo non ha scelta.

Nei confronti del prevaricatore così non muove alcuna disconferma. Ma fa un riferimento ad una situazione che potrebbe evolvere in una direzione analoga a quella che abbiamo descritto quando abbiamo parlato della fase performing della vita del gruppo. Una condizione in cui, cioè, si fissano obiettivi realistici ottenibili col coinvolgimento di tutti.

Viceversa, un dialogo improntato alla critica diretta degli effetti della strategia del prevaricatore, potrebbe portare ad una sua chiusura a riccio. E a poco servirebbe che l’assertivo, per tranquillizzare la propria coscienza, usi la formula “ho fatto il possibile”. Oppure quella ancora peggiore del “gli ho letto la vita, se capisce, bene! se no continuerà a cuocere nel suo brodo”. Che dell’assertività non ha neppure lontanamente il ricordo. Del resto, è noto che ciò che facciamo risponde a dei copioni che non possono essere modificati se non a partire dai nostri comportamenti. Il tentativo dell’assertivo si scontrerebbe, dunque, con quello che Carlo Duò ha efficacemente chiamato l’algoritmo anticambiamento. Per cui cercare di modificare i copioni con prove d’urto significa rinforzarli.

Conclusioni

Molto spesso, al termine della descrizione di un piano che voglia ottenere dei risultati ci si interroga sulla sua effettiva adattabilità alla situazione in cui concretamente ci troviamo ad operare. Ma quando lo si fa in modo rigido, come si trattasse di una ricetta, si rischia di perdere la funzione metaforica della proposta, essendosi concentrati su una interpretazione letterale.

Il che sarebbe come decidere di diventare tutti contadini dopo aver letto la parabola biblica del  seminatore. O cambiare bevanda dopo aver letto La tazza di tè.

La funzione dei racconti e delle metafore deve essere invece valorizzata in senso evocativo, cioè di mobilizzazione della creatività. Soprattutto allo scopo di concentrarci nella delicatissima operazione di modellare la strategia su cui un esercizio, un gioco, un training ci hanno fatto fare il salto di apprendimento. Affinchè risulti efficace anche nelle più disparate situazioni in cui ci troveremo ad operare. In ciò dovrebbe consistere la competenza del problem solving.

L’operazione più difficile ma forse più interessante è proprio questa. Vero e proprio esercizio di  abduzione. Senza la quale sapremmo magari risolvere l’esercizio dei nove punti ma poco sapremmo fare davanti ai mille punti interrogativi con cui la realtà ci interroga ogni giorno.

Pier Gavino Sechi.