A come agenda

Premessa.

Il brano di oggi ha un sapore e un significato particolari. Cade, infatti, ad una settimana esatta dal compleanno di questa serie di articoli “Aspettando il futuro”. E come ci siamo ripromessi, celebreremo questa ricorrenza costruendo un’agenda dedicata ad un tema particolare. Col brano di oggi  parliamo, perciò, dell’agenda come  strumento (vedi sotto). Mentre,  tra una settimana, descriveremo  come si costruisce un’agenda.  Dedicandola, dato che ne stiamo parlando ormai da tempo, al tema dell’assertività.

Il training e l’agenda: l’indissolubilità di un rapporto

L’agenda è indissolubilmente legata al training. Tanto che non si può pensare ad alcun training senza pensare all’agenda con cui si è svolto. Anzi l’agenda è come la A dell’alfabeto. Il principio, in tutti i sensi, del training. Tanto che l’evoluzione di questo può essere letto dall’evoluzione di quella.

Dalla descrizione sotto se ne coglie la primaria funzione. Comunicare ai partecipanti le fasi di attività e dunque gli esercizi e i giochi relativi. Ossia il risultato del lavoro col quale il, o molto spesso, i trainers, sceglievano, oltre al tema, gli strumenti con cui svilupparlo. Momento non facile, tanto da averci indotto a dedicargli una parte del manuale Percorsi di formazione alla nonviolenza. Nondimeno costituisce anche il punto di partenza della fase,  non meno complessa, della sua  attuazione. Infatti, durante la preparazione si trattava di trovare un equilibrio tra le diverse e molteplici idee dei suoi ideatori. Ma nella seconda bisognava conciliare il frutto di quella mediazione con le aspettative e le caratteristiche del gruppo dei partecipanti (i “trainati”).

Senza poi contare che l’intera durata del training, fosse di poche ore ovvero anche di diversi giorni, doveva fare i conti col clima che si veniva a creare nel gruppo e persino con le perturbazioni del contesto in cui era ambientato.

Più di una volta, infatti, la prima fase dell’agenda e dunque del training veniva perciò solo abbozzata dai trainers lasciando aperte una pluralità di ipotesi, così che fosse da ultimo il contesto stesso a suggerire la selezione tra i diversi scenari. Un po’ come fanno gli autori delle opere d’arte di cui decidono il titolo solo una volta terminate.

L’esperimento di Boves (CN) sulla Difesa Popolare Nonviolenta ne fu un esempio. Infatti, avrebbe  avuto certamente un inizio ben diverso, se la notte prima un nubifragio non avesse allagato il campeggio che ci ospitava. Dando così il destro a noi trainers, nel ruolo di registi di un training di una settimana,  per iniziare con lo scenario tipico della ricostruzione dopo una calamità naturale.

Ideazione e attuazione: un rapporto dinamico

In principio, però, gli scarti tra agenda e sua realizzazione erano appena tollerati. Proprio per la suddetta funzione comunicativa circa il programma previsto dai trainers (che se l’agenda serviva per la gestione di una riunione di lavoro erano gli agendieri). Ma anche per altre esigenze, come nell’esperienza del training di Porto Pino.  Allorchè, essendo in quattro a condurlo, ciascuno di noi aveva in consegna un sottogruppo dei numerosi partecipanti. In questo caso l’agenda convenuta doveva essere osservata con una perfetta sincronia, cosa che non sempre avvenne. Col crearsi di tempi morti per il o i sottogruppi che terminavano puntualmente la prevista fase di lavoro.

Il rispetto dei tempi dell’agenda e personali

In vero, il rispetto dei tempi nel succedersi delle fasi, richiedendo una precisa regolazione persino dei tempi di intervento nel tenere la parola, rappresentò, soprattutto in principio, un aspetto problematico. Sappiamo come in generale ogni esperienza nuova porta con se un’applicazione rigida delle “istruzioni per l’uso”. Forse necessaria anche per evitare la confusione tra le novità già di per sè derivanti dalle nuove proposte e quelle legate, invece, ad una loro interpretazione elastica. Senza di essa si finirebbe per usare un nuovo attrezzo prescindendone dalle potenzialità. Col rischio che potremmo non venirne mai a conoscenza. In ogni caso tale aspetto mise in luce un potenziale conflitto tra la libertà del singolo e il rispetto di una tempistica prevista in effetti per garantire a tutti eguali spazi di espressione . E che contavano in trainers alle prime uscite come guardiani inflessibili col cronometro in mano. Tale contrasto costituiva però anche il segno di quanto fosse arduo far diventare l’autodisciplina individuale regola dell’intero gruppo. Torniamo così alle riflessioni sullo scarto tra il livello personale e quello di secondo livello, in questo caso gruppale. Nonchè sulle difficoltà di far convivere la sede ritenuta ideale della libertà, appunto la persona e il gruppo che, per essere inclusivo, dovrebbe anche prevedere una disciplina per il primo livello.

L’effetto non inclusivo del gruppo training

Fattostà che quanti trovarono nel training un (ulteriore per alcuni) motivo di aggregazione, formavano un gruppo che all’esterno appariva come selettivo se non proprio chiuso. Non possiamo dire che esso fosse il caso di gruppo assertivo costituito da assertivi (tale tema doveva essere ancora scoperto al nostro interno e in ogni caso l’assertività dovrebbe conciliarsi con la capacità di ascolto e di accoglienza) ma si evidenziava, per quanto non voluta, una certa distanza tra principi proclamati e loro pratica attuazione.

L’iniziale sordità per il silenzio

Concepire, infatti, l’esigenza dei rispetti dei tempi in chiave di limitazione della durata degli interventi, si accompagnava, e per questo insistiamo su tale aspetto, ad una sorta di malcelato stigma del non intervento. Mettendo in luce  che le cosiddette metodologie training nel loro complesso, fossero indirizzate ad un tipo di personalità che volesse imparare a regolare la propria irruenza e non certo a vincere la timidezza. E che un tipo di esperienza imperniato sui piccoli gruppi finalizzati all’accoglienza e all’ascolto attivo potessero persino essere controproducenti per persone taciturne o che volessero a loro volta ascoltare. Insomma ciò che sembrava realizzare libertà e democrazia a volte poteva essere percepito con disagio e persino senso di oppressione. Con conseguente funzione selettiva delle stesse metodologie training. Tuttavia per non accreditare l’idea che tale chiusura fosse in qualche misura, oltrechè consapevole, voluta, va ricordato che nella fase di introduzione in Sardegna della pratica del training alla nonviolenza il nostro gruppo aveva provato a chiarire le finalità divulgative e non direttamente “trasformative” del training. Del resto mica potevamo poi pensare alla  selezione degli iscritti ai training alla nonviolenza.

La voce del silenzio

Solo in un secondo momento, grazie all’incontro con la teoria della comunicazione, il silenzio divenne degno di considerazione. E persino elemento base della comunicazione che ha proprio nell’ascolto uno dei suoi momenti cardine.

E’ in questa fase che l’agenda aggiunge o tende a sostituire alla sua funzione originaria comunicativa, quella ben più suggestiva di parte, sebbene iniziale, di un percorso teso a suscitare la riflessione più che a condividere punti di vista. Come indubbiamente era stato invece necessario in origine, all’interno cioè di un tipo di training fatto per rafforzare la coesione del gruppo e la condivisione delle strategie nell’ambito dell’azione diretta nonviolenta.

Nei manuali questa fase coincide proprio con l’avvento dei cosiddetti training tematici. Più vicini all’idea del training come evento aperto e dagli sviluppi incerti, che a quello dell’origine.

L’ agenda nella testa

In questa prospettiva l’agenda, piuttosto che rappresentare la soglia o “la presentazione” del percorso che deve ancora iniziare, diventa parte della scena. Per essere comunicata dopo l’inizio del training, come nei film in cui il titolo compaia dopo svariate scene inziali. O, addirittura, non è  affatto rintracciabile come strumento distinto da quelli interni al training: sino a concepire la possibilità dell’ agenda nella testa di indubbie influenze canettiane. Come si può capire, il suo scopo di comunicazione delle scelte dei trainers e controproposta da parte del gruppo non è più centrale. E sempre meno lo sarà man mano che i trainers acquistano esperienza e si allarga la cerchia dei destinatari degli eventi. Perchè una cosa è fare da trainers agendieri in una riunione del gruppo da cui l’esperienza è partita, altra cosa è condurre il training per un gruppo di persone che non si conoscono, e al limite  non sono al corrente delle finalità originarie del training. Tutto ciò al netto della tendenza innovativa, che nei manuali chiamiamo pandemoniale, che il gruppo di Cagliari impresse al primo nucleo delle metodologie del training alla nonviolenza. Gli stessi manuali segnano (ma ne sono anche il frutto) il passaggio dal patrimonio al pandemonio di questa pratica.

Le regole del buon trainer

Ciò mentre ironicamente tra le regole auree del buon trainer si includeva quella per cui egli è quello che inventa un gioco mentre lo spiega. A riprova che erano proprio le circostanze concrete, specie non prevedibili, che potevano determinare la scelta degli sviluppi del percorso . E ciò spesso dentro ridottissimi margini di tempo. Con l’evidente esigenza di una particolare intesa in caso di training condotto da più trainer. Pena, in caso contrario, il rischio di divergenze e persino di conflitti.

Il dialogo tra trainers

Ma pure, in caso di empasse, propiziando l’apertura di una fase di “dialogo tra trainers” in cui i conduttori prospettano ai trainati le diverse possibilità di sviluppo. Soluzione questa che ricorda l’origine del T-Group a ruoli rovesciati. Ossia nel caso del dialogo tra i trainers, sono questi ultimi che coinvolgono il gruppo. Laddove nel caso del T-Group il tutto nasce da una incursione dei corsisti nella “stanza dei bottoni” in cui si incontrano i conduttori per decidere le varie fasi del lavoro.

Dentro la testa del trainer

L’abbiamo già ricordato: questo strumento deve il suo successo proprio al fatto che la metacognizione è più istruttiva delle decisioni assunte. In altri termini è affascinante indagare sul perchè e sul come vengono prese le decisioni, più che la loro attuazione. Come per un film. L’incursione dietro la macchina da presa regala una prospettiva nuova e di tipo meta rispetto alle scene in azione. Come per i giocattoli che da bambini smontavamo per scoprirne il funzionamento.

Agenda come metafora

L’agenda del trainers sembra utile come metafora per rappresentare il nostro rapporto con la realtà. In particolare con le cose che ci proponiamo o dobbiamo fare quotidianamente.

Proviamo. perciò, ad immaginare le diverse situazioni con le quali potremmo avere a che fare in rapporto alle diverse modalità di uso e di interpretazione dell’agenda. Anche ai trainers infatti capita che a seconda del grado di rigidità dell’agenda debbano fare i conti con un diverso mix di elementi facilitanti e di rischi. Come capitò a me stesso, ad esempio, che col collega con cui dovevamo gestire il training, Antonello Soriga, avevamo a tal punto pianificato il percorso che ci spiazzò non poco l’atteggiamento particolarmente critico del gruppo. Il quale era disposto a svolgere le fasi da noi proposte soltanto dopo aver raggiunto la piena persuasione circa la loro utilità. Quella esperienza in particolare a me e al collega, oltre che al gruppo trainers, ci insegnò tantissimo, come a indicarci la necessità di sviluppare un senso critico acuto. su come potrebbe essere presa la tua proposta da parte di chi non è d’accordo con te. Teniamo conto del fatto che una delle regole che ben presto non ci sembrò più necessario ricordare al momento della presentazione o di avvio di un training era questa, Che la partecipazione ai nostri giochi ed esercizi non era obbligatoria. Sennonchè ricordarci della sua esistenza proprio al momento in cui una parte consistente del gruppo dei trainati ci induce a spiegare la funzione di un gioco e dopo decidere se partecipare o meno, non fu davvero esperienza facile da gestire. Del resto, non va neppure dimenticato il nostro  cosiddetto approccio non ricettaristico, seguito e chiarito nei nostri manuali nella presentazione generale dei giochi. Per cui  la finalità del gioco è una sorta di variabile dipendente dal contesto e soprattutto dall’interpretazione che ne da chi vi partecipa.

Istruzioni per l’uso

Paradossalmente, forse, per l’agenda quotidiana delle nostre azioni, proponiamo una serie di indicazioni che speriamo risultino utili. Alcune possibili modi di rapportarsi allo strumento:

0)-agenda? no grazie. Agire senza pianificazione può portare a finire in balia degli eventi. Ricorda il giocatore di un videogames che non conosce ancora le regole del gioco. Può portare a coltivare una condizione difensiva fino al raggiungimento di quella sonnambulica, oltrechè abulica, su cui mette in guardia Remo Bodei in Una scintilla di fuoco, Introduzione alla filosofia, più volte citato.

1)-te la do io l’agenda. L’eccesso opposto della strategia precedente. Con l’eccesso di pianificare tutto a tal punto che poi non rimane tempo per l’attuazione dell’agenda. Fuori da tale estremo, tuttavia porta a un atteggiamento ossessivo per cui basta il minimo ostacolo che se non si è previsto un piani b ad ogni passo (ma allora ricadiamo nell’estremo succitato) si rischia di trattare come nemico chiunque si opponga (magari perchè ha un’agenda diversa dalla nostra)

2)-l’agenda non è l’azione. Parafrasando Gregory Bateson e il suo avvertimento che la mappa non è il territorio. Altrettanto si può dire dell’agenda rispetto alla sua concreta attuazione. Del resto il significato etimologico del termine significa letteralmente cose che si devono fare. Il che richiama ad un criterio di giudizio per distinguere tra queste e quelle che non si devono fare. Sino a quelle che si fanno ma che non è necessario o non possono essere indicate nell’agenda. Tra queste comprendiamo il “come” bisognerebbe fare le cose perchè giungano al risultato. Cioè le strategie con cui noi agiamo, tenendo conto anche delle agende che hanno in testa gli altri. Che da potenziali oppositori devono essere coinvolti nel grande gioco che porti al nostro obiettivo.

3)-l’agenda delle rivoluzioni. Se per agire a livello personale abbiamo visto i possibili approcci, qual’è l’agenda consigliata per i grandi cambiamenti sociali?  La storia ci ha insegnato molto da questo punto di vista. Soprattutto che non bisogna trattare questo livello come se fosse il primo, quello personale. Infatti i più grandi fallimenti, non a caso delle rivoluzioni tentate dai grandi generali, sono stati segnati da tale fatale errore. Accompagnato da quello fondamentale di lasciare fuori dalla porta l’educazione.

A meno che il condottiero disarmati, insegna la storia, non sia animati di tensione educativa. Allora si che può usare come leva la dimensione personale. Specie di questi tempi in cui la dimensione personale e quella globale sono entrati in strettissimo contatto grazie alle nuove tecnologie. Con la conseguente attenzione per l’influencer. A quando quello già indicato dal fenomeno Thunberg, dell’influencer positivo?

Pier Gavino Sechi.