Quale innovazione? L’Innovanza frutto dell’eguaglianza

 Introduzione.

Un gioco di uno dei nostri manuali Reti di formazione alla nonviolenza, Torino 1999 si intitola Vocabolario (vedi sotto). La scelta di parlarne non è neppure oggi casuale. Infatti, come si può  pensare  in modo nuovo senza usare parole nuove?  Specie se il tema è, per l’appunto, l’innovazione?  Perciò, in continuità col brano della settimana scorsa, La corsa della solitudine (parte seconda), proponiamo, Innovanza, frutto di innovazione e eguaglianza. È una bella responsabilità dato che nel vocabolario della lingua italiana questa parola  non esiste. Di qui una sottile emozione come quando da bambini si inventavano parole nuove. Sia per comunicare escludendo gli adulti che per fare le magie.

I limiti dell’innovazione.

Ma che necessità c’era dato che esiste già il termine innovazione? Nulla di ostile contro tale termine, ovviamente. Sennonchè ce ne serve uno che rappresenti come incida sulla qualità dell’innovazione uno dei principi fondamentali quali l’eguaglianza.

Nel brano precedente abbiamo descritto, ispirandoci all’approccio ecologico di Gregory Bateson, le caratteristiche e la dinamica del processo di innovazione. Cogliendo che esso non consiste nel semplice arrivo di una novità, come l’impatto sulla terra di un meteorite. Ma si tratta di un inserimento come di un essere vivente. Se, infatti, applicassimo la descrizione di Bateson all’introduzione di una specie vivente dentro un contesto nuovo, avremmo un’idea più chiara di ciò che avviene. Lo abbiamo visto, tra la novità e il contesto si stabilisce una relazione per descrivere la quale bisogna abbandonare i termini “dormitivi” e usare aggettivi relazionali. Quantomeno spostando l’attenzione sulla strategia con cui una specie si inserisce in un contesto. Ma senza attribuire tale descrizione a caratteristiche della specie. Anche la specie animale ritenuta da noi umani più mansueta ed inoffensiva, di fronte a determinate condizioni sistemiche può diventare “invasiva” e “predatoria”. Anche per  la specie umana vale questa considerazione con la differenza che ad essa sono imputabili le condizioni dì invasivita’ e predatorieta’. Che dire se poi tale ragionamento lo proiettiamo sui caratteri nazionali? In questo caso il principio dormitivo potrebbe ritenersi causa dell’ odio alla base degli attuali conflitti etnici e razziali?

La metafora del labirinto.

Per combattere una specie nociva, come sappiamo, spesso si ricorre all’inserimento nel medesimo habitat di una specie antagonista. Il che sembra intuitivamente una scelta saggia. Ma se non lo si fa con la massima cautela e ispirandosi al principio di precauzione, ciò che in un primo momento pare una logica soluzione, dopo una certa e inafferrabile soglia, potrebbe rovesciarsi nel suo opposto.

All’inizio, infatti, la nuova specie farà il suo dovere, combattendo quella pericolosa, ma, col passare del tempo, potrebbe finire per prenderne il posto. Riproponendo tutti i problemi di prima. Ma con in più quello che bisognerà trovare un altro competitore più forte. Per cui avendo impiegato una soluzione che rende più rare altre disponibili, si produrrà un effetto simile ad un labirinto. Tutti ci abbiamo giocato almeno una volta: di fronte ad un bivio scegliendo una direzione scartiamo non solo l’altra. Ma pure tutte le altre strade ad essa conseguenti. Per cui, se abbiamo imboccato la strada sbagliata, cosa che stabiliremo solo quando troveremo davanti un muro (effetto di irreversibilità), si origina il cosiddetto effetto trappola: più procediamo e più ci avviciniamo inconsapevolmente all’insuccesso. E allora il gioco è finito, senza possibilità di mettere in campo soluzioni di tipo 2, come sa chi conosce l’esercizio dei nove punti.

Il concetto di costo-opportunità.

L’idea del bivio e della biforcazione, che Irving Laszlo nel  suo testo Il pericolo e l’opportunità, Bologna, 2008 usa per una rilettura dei momenti storici cruciali, si pone alla base del concetto economico di costo-opportunità (che a sua volta riecheggia in diritto l’istituto del lucro cessante). Essi indicano che tutte le volte che si impiega una risorsa in una direzione si rinuncia ad impiegarla per altri obiettivi. Cosicché , in caso di insuccesso, in realtà dobbiamo considerare anche l’impossibilità di rimpiazzo degli obbiettivi, dato che è svanito il mezzo col quale perseguirli.

Se tali considerazioni le riferiamo alle scelte che implicano l’impiego di ingenti risorse, come quelle  alla base delle decisioni degli amministratori pubblici, dagli imprenditori e dei tecnici, risulta difficile accettare la rivendicazione di assoluta discrezionalità con cui anche gli scienziati ritengono di stabilire finalità e metodi della loro ricerca.

Le esternalità.

Questi effetti collaterali, l’abbiamo accennato nel brano precedente, costituiscono ciò che gli economisti chiamano esternalità: positive se il contesto riceve benefici dalla scelta fatta, negative nel caso contrario.

Trattare tali esternalità non costituisce solo un problema tecnico. In quanto gli effetti di una data azione possono propagarsi in un raggio di azione molto distante dal punto iniziale. Vale da questo punto  di vista la messa in guardia di autori come Hans Jonas sulla potenzialità assunta dalla tecnica di produrre effetti su distanze sia fisiche che temporali tali da sfuggire al controllo di chi li ha prodotti. A tale genere di obiezione si espone non a caso l’impiego dell’energia nucleare. E ciò quand’anche si riuscisse a garantirlo solo per scopi civili. La custodia dei rifiuti radioattivi, infatti, richiede, per la loro pericolosità, una stabilità di condizioni socio-politiche ed ambientali per un tempo talmente lungo che può essere assai difficile assicurare in assoluto.

A proposito di distanza spaziale vale, invece, la lezione, di cui avremmo fatto volentieri a meno, della propagazione del virus Covid-19.

Ovviamente sembra in generale che siano solo  gli effetti nocivi a porre  i problemi maggiori. Poiché  le ricadute benefiche sono salutate da tutti come benvenute. Ma siamo sicuri che sia tutto così  scontato anche in questo caso?

I costi delle benefiche innovazioni.

La nostra risposta è infatti negativa.  In quanto a quella domanda dovrebbero aggiungersene delle altre che per brevità riduciamo a due fondamentali. L’innovazione, anche quando è benefica, risulta tale per chi? (cui prodest? Dicevano i latini). E per quanto tempo?

In generale agli effetti collaterali delle innovazioni si guarda con la logica del contenimento del rischio. Cosicché le esternalità negative residue, diventano impercettibili in quanto ridotte in minuscoli frammenti.

Un esempio eloquente è quello delle microplastiche. Dal ritenere utile, e persino positivo, produrre la plastica per gli usi più disparati, non possiamo poi lamentarci con i produttori se le microplastiche sono finite nella catena alimentare. A maggior ragione se nel ciclo dei rifiuti sono stati adottati tutti gli accorgimenti necessari per evitarlo (prima o poi si sarebbe verificato ugualmente).

A proposito delle innovazioni cosiddette positive, si può  osservare che i benefici non si producono in astratto ma vanno misurati alla luce di determinate condizioni. Tra queste noi proponiamo l’eguaglianza. Da qui il termine di nuovo conio, dal vago sapore latinoamericano, Innovanza.

Le condizioni dell’innovazione: l’eguaglianza.

Questa scelta di porre delle condizioni sulla qualità dell’innovazione,ci sembra necessaria. Altrimenti ogni novità, anche quelle negative dato il ragionamento che si può minimizzare il rischio del danno, di fatto  verrà salutata come positiva.

Sino a che non si noterà alcuna differenza tra innovazione benefica e innovazione nociva.

Del resto gli esempi a riguardo sono molti. Con una tendenza che si può cogliere non tanto nell’affrettarsi da parte dei tecnici e degli scienziati nel portare prove degli effetti benefici dei propri ritrovati. Quanto nelle parole che usano per giustificare i rischi.

La difesa della tecnologia 5G da questo punto di vista rappresenta un altro esempio emblematico. Non abbiamo lo spazio per analizzare in dettaglio le argomentazioni addotte, comunque facilmente reperibili sul web, per convincere della relativa innocuità di essa. Ma possiamo almeno dire che rappresentano lo stato dell’arte di come viene interpretato il principio di precauzione.

Evidentemente le competenze psicologiche necessarie a promuovere tale innovazione non vengono spese direttamente per essa, ma a valle per la vendita dei prodotti che se ne servono . Cosicché ci si imbatte in un curioso dislivello di persuasività quando andiamo a leggerci i comunicati che dovrebbero fugare i dubbi sui danni che essa potrebbe causare.

Il principio di precauzione.

Ma veniamo al principio di precauzione. In poche parole allo stato attuale è interpretato in senso molto restrittivo. In quanto serve a limitare gli effetti negativi già noti di una determinata innovazione. Ciò in quanto il nostro sistema è congegnato secondo il principio di libertà economica e della ricerca. Principi sacrosanti che tuttavia non prevengono dai Faust, probabilmente sulla base di una grande fiducia nel genere umano. Inoltre a ridurre il rischio di innovazioni nocive provvedono dei filtri legali come quelli in fase di brevettazione per cui potremmo stare tranquilli. Solo in area illegale potrebbero essere messi a punto ritrovati pericolosi ma almeno per ora difficilmente di grande pericolosità.

Insomma, una bomba atomica senza il patrocinio di una massima potenza, peraltro sorretta da fini filantropici di vincere il nazismo, non avrebbe mai potuto vedere la luce. Del resto alle organizzazioni criminali non interessa assoldare scienziati del male, come in qualche film distopico. Interessa usare per i propri scopi ciò che c’è già, per così dire, sulla piazza.

La concezione sacrale della ricerca scientifica.

Non ci soffermiamo neppure sulla legittimità della libertà della ricerca scientifica rivendicata dagli scienziati in ordine ai mezzi e agli scopi della loro “missione”.  Certo va fatta una riflessione su come garantirne l’utilità per tutti. E soprattutto se sia accettabile che possa forzare i confini dell’umano. Approfittando del fatto che la tecnica gode del singolare doppio ruolo di colei che viene chiamata a risolvere i problemi da essa stessa causati. Per cui sembra lecito che questa autoreferenzialita’ sia almeno mitigata dalla responsabilità. Almeno  per le conseguenze degli errori e appunto delle esternalità negative prossime. Specie perché i comitati etici sembrano poter intervenire solo in seconda battuta per attenuare i problemi più acuti di conflitto con ciò che c’era prima, per riprendere la descrizione dell’innovazione fornita da Bateson. Ma che dire degli effetti la cui nocività non sia provata?

Trattandosi di una prova diabolica (non si può dimostrare l’esistenza di un fatto che dove ancora verificarsi, specie se causato da qualcosa che si è appena introdotta) allora logica vuole che in mancanza di prove evidenti di nocività, il bene che suscita dubbi, può essere usato (principio di libertà di iniziativa economica) sino a che non dovesse produrre effetti negativi. Solo allora si imporrà la scelta se vietarlo, come un farmaco che si rivela nocivo, ovvero se introdurre correttivi all’invenzione o procedure di contenimento del rischio nel suo uso.

La relazione asimmetrica tra produzione e consumo.

Tra le righe ciò significa che il consumatore, che pure paga salata la primizia, assume anche il ruolo di cavia? E quando si dedicherà  all’attività economica del consumo la stessa attenzione riservata da secoli a quella complementare della produzione con l’esaltazione della figura dell’imprenditore commerciale? Ciò quando urge quantomeno dedicare attenzione alla figura dell’imprenditore sociale in un’ottica di tentativo di umanizzazione della triste scienza come è stata definita l’economia.

La calcolata lentezza  dell’eguaglianza.

Restringendo il campo, allora possiamo dire che la nocività o meno di una innovazione andrebbe stabilita proprio alla luce di altri valori, tra i quali è fondamentale per noi quello di uguaglianza. Da intendersi nel senso che i benefici devono essere prevedibili per il maggior numero possibile di persone. Ma con un’aggiunta non ingenua, speriamo, che nei costi del bene di nuova introduzione vadano computati quelli della transizione verso l’eguaglianza. Facciamo un esempio.

Oggi sia per ragioni di sperequazione delle risorse personali, sia per l’altro fenomeno interessante del ciclo di vita del prodotto, le novità sono appannaggio di pochi. Ciò crea ovviamente l’impossibilità di una loro rapida diffusione. A meno che non  vi sia lo Stato che usi le imposte sui maggiori introiti delle imprese innovative, per sovvenzionare, come avviene con le misure degli incentivi, gli acquisti da parte dei meno abbienti.

L’ eguaglianza a tante velocità.

Sappiamo però che le cose non vanno sempre così. In quanto paradossalmente la diseguaglianza non è così negativa per gli economisti  Anzi può rivelarsi persino utile, specie quando il divario economico si presenta tra sistemi e comico-geografici. Sarà infatti con gli introiti dei beni innovativi in un determinato momento storico venduti ai paesi arretrati che verranno finanziati i progetti per prodotti di ulteriore nuova generazione. In una spirale che avrà un peso molto negativo, ad esempio, per la tanto auspicata transizione verde. Che per quanto urgente, avrà diverse velocità di azione. Con in più il fatto che i paesi cosiddetti arretrati sono anche quelli che per ragioni demografiche producono maggiore inquinamento da fonti fossili.

Ecco un caso, appunto, di innovazione inserita in una cornice di ineguaglianza pregressa, che rischia di soffocare il dipinto della società dell’idrogeno, per menzionare una delle interessanti opere di Jeremy Rifkin Economia all’idrogeno, Milano, 2002.

Pier Gavino Sechi.