Le regole del gruppo

Il tentativo di dare vita a qualche forma di aggregazione sociale si è sempre storicamente scontrato con innumerevoli ostacoli. Alcuni ci sembrano interessanti per capire perché gli esperimenti condotti hanno avuto una vita più o meno lunga.

Intanto ci sembra di poter distinguere, per brevità, due tipi di tentativo. Uno frutto di progettazione e l’altro lasciato, per così dire, allo scorrere degli avvenimenti storici, senza che intervenga alcuna volontà specifica in chiave programmatoria.

Il primo, per lo più concepito sul piano letterario (si veda il filone che va da Platone a Tommaso Moro sino a Tommaso Campanella con la Città del Sole) si è dovuto misurare con lo scarto che passa tra il livello teorico e quello pratico. E anche quando si sono volute accorciare le distanze tra essi, ricorrendo alla dittatura, come nel secolo scorso, esse anziché restringersi si sono incrementate.

La ragione non è difficile da comprendere: come insegna la teoria della concezione monolitica del potere in Gene Sharp, Politica dell’Azione Nonviolenta, Torino 1985, anche il progetto animato dalle migliori intenzioni, come, ad esempio, quella di voler realizzare la felicità di tutti, solo per il fatto che cala dall’alto  è destinato a trovare più ostacoli che adesioni. Ciò in quanto tradisce un principio fondamentale che dovrebbe essere presente sin dall’inizio, ossia la libertà.

E ogni progetto, e persino ogni idea, che voglia affermarsi senza tradire tale principio, richiede tempo per essere proposto, tempo per essere discusso, tempo per essere applicato e tempo per passare dalla pratica alla cultura, cioè per essere metabolizzato. Si tratta dello stesso tipo di dinamica che caratterizza l’educazione. Anzi i due concetti sono strettamente legati in quanto non può parlarsi di educazione senza libertà. E non possiamo non ammettere che educare è di per sé educare alla libertà. Cosicché quando diciamo che si educano i giovani alla legalità, in realtà stiamo affermando che li dovremmo educare affinché scelgano liberamente atti conformi alle norme. Utile risulta così ricordare il monito pascaliano che, parafransando, diceva che se vogliamo educare gli uomini ad essere onesti, dovremmo educarli a tutto il resto, cioè a vivere…

Quando i tempi dell’educazione (e della libertà) vengono forzati, dunque, siamo nel territorio distopico della dittatura, del totalitarismo, il cui programma è tanto più serrato quanto più è ispirato da pochi o da uno solo. L’uomo solo al comando, però, ha di per se fretta: agisce nell’arco temporale della sua vita e se è un tiranno, deve guardarsi, contrariamente alla  figura dello statista celebrata da Hans Jonas, dal risultato della sua ferocia: la vendetta di chi ha sottomesso. Del resto questa è la legge della violenza. E’ come la droga, una volta che ci siamo messi nelle sue mani, c’è bisogno di dosi sempre più massicce.

L’altra modalità, ossia affidarsi alla storia, a parte che non esclude di imbattersi in Dottor Faust, come quelli di cui abbiamo parlato sopra, presenta l’inconveniente che ormai è diventato per noi un bisogno irrinunciabile quello di programmare il futuro…Poi certo bisogna distinguere. Se cerchiamo di farlo anche per altri, e anche noi abbiamo fretta, anche solo per coerenza e amore per la nostra idea di futuro, dal punto di vista teorico non diventiamo molto diversi dai dittatori della storia. Magari ci saranno differenze di quantità, ma non di sostanza e forma.

Del resto, non possiamo fare a meno di volere che anche gli altri seguano i nostri principi, sia perché ciò è la conseguenza naturale della loro bontà, sia perché molti di essi non possono essere praticati in solitudine. O addirittura debbono anche solo essere difesi da coloro che vorrebbero negarceli.

Quando ciò accade i nostri buoni principi vengono duramente messi alla prova. E ci mettono di fronte alla necessità di trovare degli strumenti di difesa efficaci. Ecco perché la violenza mostra tanta efficacia. Di fronte a chi mi aggredisce, infatti, non ho neppure il tempo di dichiarare la mia libertà, devo prontamente intervenire in qualche modo sospendendo l’efficacia della mia rinuncia, ad esempio, alla violenza.

Ma quella con cui mi difendo non certo è una violenza dello stesso tipo di quello che usa il mio aggressore nei miei confronti. Ricordiamo che nella tradizione nonviolenta, era lo stesso Gandhi che nell’esempio estremo del pazzo che inizia ad uccidere le persone del nostro villaggio, imponeva al vero nonviolento l’obbligo che fosse egli per primo ad uccidere l’aggressore. Nonviolenza, infatti, non è la rinuncia alla violenza da parte del codardo.

Inutile dire che l’avvento della bomba atomica ha cambiato gli scenari e le categorie morali, facendo passare la nostra specie dall‘etica della convinzione all’etica della responsabilità come diceva Max Weber.

In attesa di dedicare un’apposito brano a questo tema, da parte nostra, abbiamo già accennato come merito del gioco Dilemma del prigioniero, sia proprio quello, tra gli altri, di fare in modo che la strategia cooperativa sia dotata, in aggiunta alla sua naturale capacità espansiva, di sottostrategie atte a difenderla da quelle non cooperative.

Tuttavia sono state indicate altre possibilità…tra i progetti di cambiamento messianici, per giunta indorati dall’idea escatologica dell’uomo nuovo, o superuomo (lasciando in pace Nietsche che parlava di oltreuomo…) e lo sperare, chiudendoci nel nostro particulare, che tutto vada bene… (decine sono ancora le case che espongono questo mantra propiziatorio nel dopo Covid).

Tuttavia, proprio per quel bisogno vitale che, certo poi può essere utile ad altri e entrando nelle strade tortuose del web, accorciare i classici tempi storici delle trasformazioni benefiche, non vogliamo rinunciare a proseguire quanto anticipato nel brano precedente intitolato Tempi moderni.

Per farlo, anche per dare un nostro contributo in occasione della 95° Giornata Internazionale delle Cooperative e 23° Giornata Internazionale delle Cooperative delle Nazioni Unite, riprendiamo due giochi tratti dal nostro patrimonio training, Zattera e Regole del gruppo (vedi al termine del brano).

Li proponiamo insieme in quanto l’uno rappresenta una modalità di cooperazione basata solo sull’istinto di sopravvivenza (per quanto sia un gioco che può essere modulato in chiave di ricerca di regole per rendere più efficace la difesa dal nemico), il secondo, invece, mira a creare regole di convivenza condivisa, cioè basate, appunto, sulla libertà.

Ovviamente diamo per assodato che se riteniamo fondamentale il nesso tra mezzi e fini, altrettanto ovviamente affermiamo che il mezzo, per essere omogeneo al fine, non può essere un mezzo qualunque, per cui non basta, per intenderci, fregiare un ente della ragione sociale di cooperativa, perché davvero si tratti di un vero esperimento di cooperazione.

In questo momento ci interessa approfondire l’utilità del gioco Regole del gruppo, come dicevamo, allo scopo di rendere un contesto a misura d’uomo. Ossia capace di soddisfare i bisogni umani attraverso decisioni basate su una adeguata strutturazione dei tempi di vita.

Il vantaggio di tali contesti, che abbiamo paragonato a macchine del tempo o ad astronavi, in linea con la metafora che in economia gli scienziati usano per rendere percepibile la finitezza del nostro pianeta, sta nel fatto che essi rieducano all’autonomia e legano tra loro persone che saranno poi più determinate nel portare quelle decisioni anche in altri contesti.

Ecco, in sostanza, l’efficacia del valore della libertà.

Essa porta a far coincidere chi pone una regola col suo attuatore e persino col suo difensore…

Non è una novità, del resto, la teorizzazione che una condizione fondamentale per far rispettare una regola è quella di un coinvolgimento attivo nella fase di creazione di chi deve rispettarla . Dopo semmai arrivano le altre condizioni, tra cui quella della chiarezza del testo normativo….

Del resto per rendere possibili cambiamenti sociali che richiedono il massimo impegno dei cittadini occorre che questi abbiano liberamente scelto, ed ecco che torna la funzione educativa, di percorrere quella via.

Abbiamo già parlato di questo aspetto, per cui torna utile il richiamo al libro di Vittorio Hösle, Filosofia della crisi ecologica, Torino, 1992.

Quei tre aspetti, porre la norma, attuarla e farla osservare, non sono altro che quelle che nello Stato, secondo la classica tripartizione tra potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario, sono assegnati a strutture organizzative diverse e destinate a diventare autoreferenziali, più crescono le dimensioni. Dando luogo a quella dimensione spersonalizzante di cui parla Serge Latouche, in La Megamacchina, Torino 1995.

Ma le regole decise consensualmente sono davvero “giuste”?  E non è questa un’altra importante condizione perché le regole, una volta poste, siano osservate spontaneamente?

Di questo parleremo nel prossimo scritto, ricorrendo a qualche idea tratta dagli insegnamenti di John Rawls.

 

Pier Gavino Sechi.