Dico ma non dico

  • Premessa.

Non vorremmo stupire con l’abbondanza, se oggi proponiamo due giochi anziché uno solo, come di consueto. Il fatto è che si tratta di due esercizi strettamente legati al tema della comunicazione, anche se tratti dai due diversi nostri manuali.

Sarebbe sin troppo ovvio cominciare col dire che la comunicazione è così importante, e, dunque, saper comunicare è altrettanto fondamentale. Per averne una prova basterebbe vedere che cosa capita quando non la usiamo in modo corretto.

Intanto, vedete, non volevamo dirlo, ma l’abbiamo detto!

Del resto come avremmo potuto fare a dirvi che cosa non avremmo voluto dire, se non, appunto, dicendovelo?

E allora rimaniamo int si: quello che abbiamo detto non l’abbiamo detto (salvo quest’ultima frase, anzi la precedente a questa).

Ovviamente potremmo continuare così oppure non scrivere più nulla, come segno di comunicazione. Ma poichè non vogliamo che il presente brano venga attribuito alle altissime temperature di questi giorni, siamo costretti a tornare ad un registro più distaccato.

Facciamo perciò un passo indietro, ricordando ciò che da qualche tempo ci siamo riproposti. A beneficio di chi, come si usa dire, si fosse messo solo ora all’ascolto, pardon alla lettura!, di questa nostra rubrica Aspettando il futuro.

Tutte le settimane, infatti, apriamo a caso uno dei nostri manuali di giochi ed esercizi e ci lasciamo guidare nella riflessione dalle suggestioni che ci suggeriscono. Come appunto se fossimo affacciati all’oblò della navicella guidata dalle nostre tre scimmiette. Ma anche, come accade quotidianamente, di fronte alle vicende del mondo che ci interpella.

Il gioco su cui abbiamo aperto la pagina è il primo e, come il secondo, che esso ci ha fatto ricordare, tratta della comunicazione.

Le figure retoriche

Anzi, per la precisione, delle figure retoriche  di cui vogliamo parlare in questo brano.

La scelta si giustifica col fatto che le figure retoriche rappresentano il cuore del versante analogico della comunicazione. Ne sono il colore e la colonna sonora.  Senza una, almeno generale, idea delle figure retoriche saremmo privi di una importante chiave di lettura. Abbiamo già parlato dell’aspetto di notizia e dell’aspetto di relazione insiti in ogni messaggio comunicativo analogico (cioè non scritto) per cui possiamo aggiungere che certe figure retoriche possono esprimersi solo a livello di relazione.

È il caso di una delle figure retoriche che viene espressa in particolare dal gioco proposto oggi.

Disfemismo e dintorni

La prima è rappresentata dal disfemismo.

Parliamo male del nostro interlocutore ma il modo con cui lo facciamo, il tono che usiamo e, in generale, l’atteggiamento che teniamo nei suoi confronti, tradiscono l’opposto. In particolare affetto e apprezzamento.

Si tratta di menzogna? Esprime un rapporto moralmente sconveniente col prossimo?

Una forma di difesa dell’io?

In realtà,  se ci pensiamo,  le figure retoriche  riflettono il nostro modo di vedere la realtà, e quando comunichiamo agli altri tale risultato, ciò che esprimiamo è il frutto di una doppia operazione. Da un lato interpretiamo ciò che ci appare e dall’ altro lo traduciamo agli altri in funzione delle loro orecchie.

Il fenomeno risulta accentuato quando la realtà da affrontare e tradurre non ci piace ed in più non ci piace la persona cui dobbiamo esplicitare tutto questo.

Abbiamo già visto che di fronte a fatti problematici si attivano meccanismi difensivi pressoché automatici, che hanno proprio lo scopo di “ritardare la resa”.

Tra questi meccanismi dovremmo, almeno quando non si tratti di veri e propri tsunami, considerare la possibilità di farci una versione dei fatti che ce li renda accettabili il più possibile. In modo tale da conservare praticabili spazi di manovra.

Ciò può accadere anche soltanto nella fase suvvista di traduzione in funzione comunicativa agli altri di ciò che ci risulta poco affrontabile.

Eventuali considerazioni morali nude e crude, perciò, oltre a non tenere conto che i valori morali servono come punto di riferimento, sono cioè principi regolativi dell’azione, rischiano di qualificare come negative funzioni, come quelle descritte, che, invece, sarebbero da considerare forme difensive molto importanti.

Sarebbe troppo facile ricordare che la capacità di mentire viene considerata come una delle abilità prerogativa di specie viventi più attrezzate, tra le quali, la nostra. E molto facile sarebbe invitare alla lettura del testo di Giorgio Nardone, Mentire a se stessi e agli altri, Firenze, 2014.

Perciò non lo faremo.

Dall’antica sapienza

Molto interessante ci sembra, invece, ricordare quanto narra Esopo nella favola Zeus, Prometeo, Atena e Momo. È la storia in cui Zeus caccia dall’Olimpo Momo per l’invidia che questi prova nel giudicare come difettose le opere dei primi tre. Una di queste era stata affidata a Prometeo. Si trattava di modellare l’uomo. Al termine Momo sentenziò che Prometeo avrebbe dovuto appendere il cuore dell’uomo fuori dal petto. In modo tale da non poter nascondere i pensieri malvagi. Un’ode ante litteram agli psicoreati di marca orwelliana, insomma.

Tuttavia, se Zeus fosse stato meno impulsivo, avrebbe potuto ribattere al giudizio negativo sul manufatto di Prometeo che sarebbe messa a repentaglio la vita stessa dell’uomo se tutto ciò che pensa fosse immediatamente percepibile dai suoi simili. La  morale, infatti, esisterebbe proprio per mediare (meditare) tra ciò che ci salta in mente e ciò che poi decidiamo di  dire e di fare.

Sarebbe del resto debole la tesi per cui l’immediata leggibilità del pensiero servirebbe anche per comunicare immediatamente propositi positivi. Anche in questa ipotesi, infatti, basterebbe il primo pensiero negativo per buttare alle ortiche tutti i pensieri positivi precedenti e proiettare un’ombra negativa anche su quelli futuri. Un po’ come accade nel caso dei  passi falsi che commettiamo con i nostri amici: prima di ripristinare la nostra precedente immagine è necessario chissà quanto tempo di integerrimo comportamento.

Ma se si trattasse di un reato? L’alone negativo è destinato a rimanere forse vitanaturaldurante sulla testa dell’autore.

L’ àncora dell’assertività

Invece ci interessa riallacciarci a quanto abbiamo detto in altri brani a proposito della competenza tipica dell’assertivo, rappresentata dal sapere fare le critiche.

Che destino avrebbero critiche distruttive produttrici di black-out comunicativi?

Non sarebbero più tipiche della posizione esistenziale del prevaricatore o del distruttivo?

La virtù delle buone non basta più

Se la critica aspira a produrre dei cambiamenti, chi la fa deve assumersi l’ onere di renderla accettabile alle orecchie di chi ascolta. Pena, in caso contrario, il suo rigetto per chiusura a riccio del destinatario.

A quel punto sarà una magra consolazione, ma ci può essere chi si accontenta e gode, rivendicare una superiorità morale per aver detto la “verità” nuda e cruda.

Non ricorda la biblica dichiarazione “Muoia Sansone con tutti i Filistei”?

Le fallacie logiche

Uno sguardo all’oggi, infine, ci da l’occasione per mettere in guardia sul confine strettissimo che passa tra le figure retoriche e le cosiddette fallacie logiche.

Considerando che queste ultime ottengono il risultato di convincerci di qualcosa saltando ogni vaglio di carattere logico.

Ad esempio, un effetto collaterale del Covid-19 è stato  proprio il prepotente ritorno alla ribalta della fallacia logica chiamata petitum ad auctoritatem.  Soprattutto all’inizio della pandemia, infatti, abbiamo assistito alla salita in cattedra della figura del virologo.

Alla lunga la sua eccessiva esposizione mediatica ci ha portato a riflettere che la stessa scienza è tale solo se può essere confutata. Vincendo la forza simbolica del camice bianco.

Conclusioni

Vale la pena, perciò, avendo iniziato con una preterizione (suggerita dal titolo del gioco di oggi), concludere con una frase risolutiva (epifonema).

Alla certezza va sostituita sempre la probabilità che, forse non a caso, fa rima con l’umiltà.

Pier Gavino Sechi.