Bombe ad orologeria

Questa volta partiamo direttamente dal gioco settimanale, tratto dal nostro patrimonio ludico, per  prendere spunto per il brano di oggi.

Lo trovate in fondo alla pagina…il suo titolo è Totem.

Ci sembra interessante proporlo in questo periodo in cui ricorre il settantacinquesimo anniversario dell’ufficiale comparsa nella storia dell’ordigno nucleare: il 6 agosto 1945 venne sganciato sui cieli di Hiroshima e il 9 successivo su quelli di Nagasaki.

Totem è un esercizio usato nei nostri training di formazione alla nonviolenza per introdurre il tema del contrasto tra comunicazione verbale e comunicazione non verbale, che riesce bene a patto che chi deve esprimersi in modo solo verbale sia abile a “censurare” il non verbale (la gestualità…)  espresso da un’altra persona…(tenete conto che nel Totem le due persone che lo formano non hanno la possibilità di vedersi e dunque di metacomunicare)…Allo stesso modo, dopo l’irrompere nella storia dell’ordigno nucleare, l’uomo deve imparare a “trattenersi” e “censurarsi”. Cioè deve riuscire-ad-imporsi-di-evitare-di-fare (che già a scriverlo e a dirlo è un’impresa…), se dannoso per l’umanità, ciò che sarebbe possibile.  Infatti, mentre prima tutto ciò che diventava possibile in nome del progresso scientifico (e della guerra “giusta”) era bene e persino necessario farlo, oggi, al contrario, non tutto ciò che è diventato possibile si deve e moralmente  si può fare…Per non mettere a repentaglio la vita della nostra specie. Si proprio così, non la vita delle altre specie…

Come, infatti, dimostrano i reportage sulla situazione di Chernobyl, a seguito dell’esplosione di un reattore nucleare nel 1986, la città e un vasto territorio circostante rimarranno inospitali per l’uomo per altri 20.000 anni,  mentre per le altre specie viventi, dotate di altri meccanismi biologici legati alla durata di vita e ai ritmi riproduttivi, risulta essersi creata una sorta di enorme riserva libera dalla presenza dell’uomo

Bisogna quindi porsi dei limiti nel fare ciò che potremmo fare…Capite bene che cosa ciò significa?  Lo scienziato, fatta una scoperta pericolosa, dovrebbe distruggere la formula…(sennonché ormai si lavora in equipe…). Ricorda da vicino lo sforzo che dovevamo fare quando da bambini giocavamo a non pensare: non potevamo far altro che…pensare a NON pensare…lo sappiamo, il nostro cervello non conosce la negazione…per negare qualcosa bisogna pur sempre rappresentarsela

Per esprimere a livello culturale questa sfida sulla ricerca e il rispetto del limite…Max Weber, agli inizi del secolo scorso, distinse tra l’etica della convinzione e l’ etica della responsabilità (in Considerazione intermedia, Il destino dell’Occidente, Roma, 2006 e La scienza come professione. La politica come professione, Milano, 2014,  ma vedi anche, per gli sviluppi di quella proposta applicati al periodo post bellico, il libro di Emilio Giuseppe RosatoLa “responsabilità” nella biofilosofia di Hans Jonas, Cosenza, 2011).

La prima si basa su principi assoluti, a prescindere dalle conseguenze. L’etica della responsabilità, invece, bada al rapporto mezzi/fini e alle conseguenze e, senza ispirarsi a princìpi assoluti, considera sempre la conseguenza dell’agire. Questa forma di morale è quella che dovrebbe guidare lo statista che Hans Jonas in Principio responsabilità (citato in altri articoli) considera, al pari del genitore, come quello che dovrebbe proporsi di agire per risultati di cui potranno beneficiare le generazioni che verranno. Se ci pensiamo, come abbiamo detto in un’altra occasione, il genitore rappresenta l’esempio più diffuso di chi agisce sapendo che il destinatario delle conseguenze delle proprie azioni, in questo caso il proprio figlio, è votato a sopravvivergli.

Lo scarto tra potere e dovere di astenersi dal fare, comporta, peraltro, il ritorno alla relazione uomo-natura, precedente alla nascita del pensiero scientifico (Galileo, Torricelli, Cartesio) che aveva dato al primo il potere di sostituire alle leggi naturali quelle risultanti dal metodo sperimentale.

Siamo però oggi ad un vero e proprio giro di boa, in quanto questa nuova necessità di frenare lo slancio scientifico, mosso per lo più dal bisogno di salvare la natura in quanto diventata pericolosa per la specie umana (e l’esperienza Covid-19 si inserirebbe in questa possibilità) individua i doveri e i limiti all’azione all’interno di un tipo di morale assolutamente inadeguata e persino antiquata.

In particolare una morale ancora limitata ai rapporti tra gli uomini e del tutto ignara, invece, dei cosiddetti enti di natura. Ne è una riprova il fatto che se uccido un mio simile devo temere conseguenze molto pesanti, ma se inquino un corso d’acqua?  E qualora fosse considerato un giorno questo gesto moralmente riprovevole, al pari dell’uccisione di un uomo, verrei punito per aver violato un’entità degna di protezione in sé? Ancora no, forse ci vorrà del tempo… Del resto fa parte del passato, da cui l’umanità si sarebbe affrancata, ritenere che il fiume sia un essere vivente…Per cui investire di soggettività la natura dovrebbe forse passare per altre forme. Oggi è molto più facile che si punisca l’inquinamento di un fiume in quanto se ne riduce il valore economico.

Attenzione, la ricerca di questi limiti non può implicare una rinuncia alla tecnica, in quanto essa pare essere l’unica entità, vero e proprio totem, cui siamo costretti a ricorrere anche per porre riparo ai suoi stessi errori…

Dunque, non possiamo essere oggetto di un’accusa antiscientifica…piuttosto, ma lo facciamo per alimentare la discussione, occorrerebbe misurarsi in modo più creativo sul principio di precauzione che dobbiamo proprio all’opera di Hans Jonas. Egli lo coniò all’indomani della distruzione di grandi fasce della foresta nera in Germania, nel 1979.

Cercheremo di spiegare con degli esempi l’incidenza quotidiana di tale principio.

Entro certi limiti, può essere considerato accettabile, e persino gratificante, per il consumatore il meccanismo per cui determinati prodotti, sia per motivi di contenimento dei costi che di rapidità, vengano immessi sul mercato dopo aver superato test che escludano una determinata soglia di rischi, salvo poi garantire la pronta sostituzione nell’eventualità che si manifestino dei vizi. Il pensiero corre ai beni di largo consumo specie di tipo tecnologico, mentre certamente sarebbe meno tollerabile per i prodotti alimentari…Ma che dire allorché si tratti di prodotti destinati a rivelarsi irreversibili…come lo sono in certa misura tutti gli organismi geneticamente modificati o l’energia nucleare che ora pure i paesi arabi cercano di sostituire al petrolio, addirittura definendola “energia pulita”? Può il principio di precauzione, in questi casi più delicati, limitarsi ad esigere col cappello in mano che si possano introdurre nel sistema beni i cui effetti nocivi siano almeno  inferiori ai vantaggi, o addirittura consentirlo quando ancora non siano noti?

La tecnica, infine, andrebbe meglio inquadrata nella sua specificità. Spesso si pensa sia un’applicazione della scienza. Ma non bisogna confonderla con la tecnologia, in quanto essa è invece la forma della scienza…nel senso che per tecnica dobbiamo intendere tutto ciò che, servendosi del metodo scientifico, aspira a cambiare la natura…In questo senso la tecnica dunque è il cuore della scienza…E come tale si applica a tutti gli aspetti della nostra vita tra i quali quelli di come è organizzata la società in cui viviamo, la cui forma dominante è quella che Serge Latouche chiama la Megamacchina. Un’organizzazione complessa ed articolata, sostanzialmente perfetta, entro cui ciascuno di noi svolge un ruolo col massimo della precisione possibile…questo è in fondo il nostro lavoro…molto spesso a prescindere persino se sia benefico o dannoso per noi o per gli altri… perchè che significa dannoso? a causa di quali effetti? immediati o di lungo periodo?

Avremo modo di analizzare nell’ambito di ciò che l’uomo non sa fare, proprio il limite di pensare agli effetti a lungo periodo…

Insomma, ciascuno di noi è vincolato ad un lavoro basato su delle procedure cui attenersi scrupolosamente…Così, in effetti, veniva descritto il proprio compito dai gerarchi nazisti, di fronte alle domande sulle ragioni per cui avessero avviato ai forni crematori milioni di persone. Ma, attenzione, dello stesso tenore fu la risposta dell’aviatore che sganciò la bomba esplosa precisamente a 500 metri dal suolo per ottenere il massimo effetto espansivo della forza d’urto. Nei cieli di Hiroshima…settantacinque anni fa.

E dopo qualche giorno fu la volta di Nagasaki…spesso le celebrazioni commemorative tendono a trascurare questa seconda tragica replica…

La guerra non era ancora finita formalmente…perciò c’era ancora del tempo prima di dichiarare chiuso quest’altro grande esperimento scientifico con cavia, anche stavolta come nel caso dei campi di stermino, non un indifeso topolino da laboratorio, ma centinaia di migliaia di persone…Insomma nel linguaggio tecnico, un esperimento applicato al modello scientifico di maggiore complessità: l’uomo, nel più grande laboratorio che si possa immaginare…

E veniamo all’oggi, i giochi che rievochiamo ci servono per aguzzare i sensi su ciò che noi stessi facciamo ogni giorno. Anche la recente esplosione nel porto di Beirut è stato frutto di un incidente, ma ciononostante, dal punto di vista della gestione delle responsabilità, ha delle somiglianze con gli episodi bellici su descritti…probabilmente i responsabili dei danni, che verosimilmente verranno accusati non di aver voluto l’evento, ma di non averlo evitato, cercheranno, infatti, di dimostrare che il loro lavoro consisteva nel compiere una particolare mansione, che, magari, dalle indagini potrà risultare assolta…

Ciascuno, forse, si sarà premurato di innaffiare la propria piantina senza vedere la valanga che minacciava il bosco…quante volte noi stessi lo facciamo ogni giorno: quanti sono i problemi che sentiamo accumularsi in vista dell’effetto valanga…quante le bombe ad orologeria, di cui, in ogni campo, sentiamo il sinistro ticchettio, che cerchiamo di coprire col mantra “speriamo che me la cavo?”?

Pier Gavino Sechi.